Famiglia italiana trasferita in Israele, da Testaccio al kibbutz: «I missili sono un incubo, ma da qui non fuggiamo»

Angelica Edna vive in Israele da 20 anni. I figli al fronte, il marito sorveglia il villaggio

Famiglia italiana trasferita in Israele, da Testaccio al kibbutz: «I missili sono un incubo, ma da qui non fuggiamo»
di Greta Cristini
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Mercoledì 25 Ottobre 2023, 06:19 - Ultimo aggiornamento: 26 Ottobre, 08:55

«Hamas ci ha trascinati in una spirale di odio che non appartiene alla nostra mentalità». Angelica Edna Calò Livne, 68 anni, ebrea romana originaria del quartiere Testaccio, racconta senza farsi prendere troppo dalla rabbia queste giornate di dolore, quel senso di vulnerabilità che per chi vive in questi kibbutz è diventato un incubo continuo. Il pericolo qui sembra sempre dietro l'angolo. A 20 anni, Angelica Edna ha lasciato l'Italia per vivere secondo gli ideali comunitari del villaggio rurale di Sasa, a un chilometro dalla Blue Line, il confine mai riconosciuto ufficialmente fra Israele e Libano. E da qui ora non vuole andar via. «Abbiamo portato la nostra ironia romana in Israele e durante le feste ebraiche tutti ormai cantano in giudaico romanesco». Un pezzetto della Capitale è qui. E nel 2001, con il marito Yehuda, ingegnere meccanico ora prestato alla difesa del kibbutz accanto all'esercito israeliano di stanza, Angelica Edna ha fondato "Beresheet LaShalom", un laboratorio teatrale di giovani israeliani, palestinesi e giordani che nel 2018 sono stati ricevuti da Papa Francesco al Vaticano.

LA GUERRA IN FAMIGLIA 

Il 7 ottobre un pezzetto di guerra è entrato nelle case di tutti, anche di chi vive un po' più lontano dal confine con la Striscia di Gaza. E tre dei quattro figli della sessantottenne di Testaccio Yotam, Kfir e Or sono stati subito richiamati dall'IDF e dispiegati in poche ore in punti non meglio precisati del territorio, a ridosso della Striscia di Gaza. Di quel giorno Angelica Edna ricorda le parole dei ragazzi: «Se piangi ci indebolisci. Noi sappiamo cosa fare: andiamo a difendere la nostra casa». Ma mentre il resto della comunità di Sasa (circa 450 persone) e degli insediamenti vicini ha abbandonato le proprie case, Angelica Edna e altre 30 persone, fra cui quattro italiani Cesare, Luciano, Maurizio e Yehuda hanno scelto di rimanere qui, per portare avanti l'economia della comunità e proteggere la propria terra. «I novanta ettari del nostro frutteto sono a poco più di 1 km dal confine. Ogni mattina andiamo lì per raccogliere mele e kiwi, la cui vendita è la nostra unica fonte di sostentamento». Alla domanda sul futuro dei rapporti fra ebrei e palestinesi, Angelica Edna risponde che l'azione di Israele è necessaria ma che «una pace è possibile dopo la liberazione degli ostaggi e la mobilitazione di Israele e dei suoi alleati per sradicare Hamas e gli altri agenti del terrore». Perfino in questi giorni, spiega, «le famiglie arabe che sono ancora qui vengono ad aiutarci con il raccolto. A dimostrazione che la convivenza pacifica fra ebrei e arabi può funzionare. Anche adesso». 

LA VITA QUOTIDIANA

È questa la nuova vita di chi resta nella trentina di kibbutz, moshav (altre comunità agricole) e villaggi della Galilea settentrionale. Sono ebrei, musulmani, drusi, cristiani e circassi che hanno rifiutato l'invito dell'esercito di evacuare le zone che dall'8 ottobre sono al centro degli scontri a fuoco quotidiani fra le Forze armate israeliane ed Hezbollah, il partito armato filo-iraniano che attacca dal territorio del Libano, più a nord di quella Blue Line dove proprio gli italiani, attraverso la missione militare Unifil, operano da molti anni per evitare gli sconttri. La capacità dell'alleato libanese dell'Iran di colpire lo stato ebraico si estende lungo tutta la fascia di terra che dalla costa del Mediterraneo arriva fino alla valle dello Yarmuk, al confine con la Giordania. Qui Hezbollah colpisce le postazioni militari israeliane molto vicine agli insediamenti civili di frontiera e Israele risponde sulle aree speculari vicine ai villaggi libanesi. Al momento lo scambio di artiglieria è a frequenza crescente, ma ancora contenuta: i due schieramenti, da quel che sembra, stanno testando reciprocamente le capacità di risposta dell'avversario.

L'INCUBO

Il timore dei civili che vivono al di qua di quella striscia di terra di confine è legato alle potenzialità dell'arsenale del Partito di Dio libanese che, secondo alcune stime, sarebbe tre volte maggiore di quello di Hamas. «È vero, siamo i primi della lista, ma non gli ultimi», conclude Angelica Edna Calò Livne. Non solo. I razzi e missili a lungo raggio nelle disponibilità del movimento libanese possono arrivare a colpire fino al confine fra Israele e Egitto nel Sinai. Per questo l'aviazione israeliana sta bombardando in queste ore obiettivi iraniani in Siria tra cui gli aeroporti di Aleppo e Damasco, snodi aerei fondamentali per il rifornimento delle armi ad Hezbollah provenienti dall'Iran. Anche a Nord si dà fuoco alle polveri. «Noi comunque da qui non ci muoviamo, questa è casa nostra, è la nostra vita».

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