Edith Bruck, l'inferno dei lager e l'amicizia con Primo Levi: «Sua moglie era gelosa di noi»

di Giorgio Biferali
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Martedì 3 Ottobre 2017, 17:21 - Ultimo aggiornamento: 30 Giugno, 16:25

«La vera misura della vita è il ricordo», diceva Walter Benjamin. È l’epigrafe che ha scelto Edith Bruck per il suo ultimo romanzo La rondine sul termosifone, pubblicato quest’anno da La Nave di Teseo, e dedicato agli ultimi giorni trascorsi insieme al compagno Nelo Risi. Edith è nata in una famiglia ebraica il 3 maggio 1932 a Tiszakarád (dal fiume Tisza), un piccolo comune ungherese di duemila abitanti. È stata deportata nei campi di concentramento nel 1944, quando aveva quasi tredici anni, e con lei i genitori, i due fratelli e la sorella. La sua infanzia è finita lì, quando anche il futuro è diventato un ricordo. Oggi, mentre fuma una sigaretta dietro l’altra, di quelle lunghe, finissime, e si guarda intorno, nei suoi occhi color ghiaccio sembra di leggere, di ritrovare uno dei versi più belli e più famosi di Baudelaire: «Ho dentro più ricordi che se avessi mille anni».

Qual è stato il momento in cui ha capito che stava succedendo qualcosa?  
«Vede, l’esperienza negativa non è cominciata nei campi, ma qualche anno prima, dagli anni Quaranta in poi, nel senso che io sono nata in un totale antisemitismo, in una totale emarginazione, finché nel piccolo paese non è arrivato il pieno fascismo, da un giorno all’altro nessuno ci salutava più, oppure il maestro della scuola ci salutava per strada con “Heil Hitler!”. Voglio dire che la sofferenza più acuta l’ho vissuta prima della deportazione perché facevano dei dispetti, delle crudeltà, non solo a me, anzi a me di meno visto che non ero così religiosa. Più religioso eri, più ti facevano i dispetti. L’ultimo idiota poteva sputarti addosso, c’era la libertà più assoluta di farti qualsiasi cosa, da parte di chiunque incontrassi per strada, anche se ti conosceva, ed era molto più doloroso perché magari due giorni prima giocavi e andavi a scuola con loro e parlavano la tua stessa lingua e sono nati nel tuo stesso paese, dove tu credevi di essere ungherese di religione ebraica e che avessimo tutti gli stessi diritti. Nessuno capiva quello che stava succedendo, erano quasi tutti analfabeti, a parte i Signori delle Anime, i tre maestri delle scuole elementari (non c’erano altre scuole) e il prete protestante, più amabile e umano di quello cattolico. All’improvviso mio padre non trovava più lavoro e mia madre era disperata perché doveva mantenere i figli».

Quindi la tragedia è cominciata prima dell’arrivo dei tedeschi…  
«Sì, quella che sono stati i tedeschi a portarci via è una delle grandi bugie tramandate dal dopoguerra a oggi. Sono stati i gendarmi ungheresi a buttar giù la porta, all’alba. Avevano su per giù venticinque anni, ma cosa stavano facendo? Una deportazione improvvisa? Da noi non arrivavano i giornali, non c’era la radio, era un paese di contadini, il prete, l’insegnante e il barone dominavano il paese, eravamo in pieno feudalesimo. C’era anche qualche anima buona, non è mai tutto nero nella vita».

E cos’è successo dopo che hanno buttato giù la porta?
«Il gendarme ha dato uno schiaffo a mio padre, l’ha riempito di insulti. Un ragazzino che mette le mani addosso a un uomo di quarantotto anni, lì abbiamo capito che era finito il mondo. Io ero una ragazzina che giocava con le bambole. Ci hanno portato alla Sinagoga, erano circa centocinquanta persone, una comunità ebraica molto piccola. Lì non ho mai visto un tedesco, sia chiaro, chiedevano ori e gioielli ma erano tutti ebrei poveri, il massimo della ricchezza ce l’aveva il proprietario di un bugigattolo, noi neanche quello. Andavamo in giro a chiedere in prestito un uovo, non c’era più la sopravvivenza cibaria, noi eravamo sui carri tirati dai cavalli e i cani abbaiavano e loro li incitavano contro di noi, quindi abbiamo attraversato il paese in questo cammino triste e allucinante. C’erano contadini con il grembiule fuori, alcuni l’hanno alzato asciugando una lacrimuccia, un altro ha fatto il segno della croce mentre passavamo, alla stazione ci hanno buttato dentro un vagone e ci hanno portato nel capoluogo dov’era il ghetto, in un quartiere della città completamente isolato da muri e lì è nata la democrazia tra gli ebrei, nel senso triste e ironico che eri uguale al figlio del medico, dell’ingegnere, il ricco e il povero erano uguali».

L’uguaglianza nel male…
«Sì, eravamo cinque famiglie in un bell’appartamento con parquet, con dei bellissimi mobili, sembrava un film di Buñuel perché cominciavano a litigare per la cucina, e un contadino che era il papà di una mia compagna di scuola è riuscito a entrare nel ghetto per portarci patate e fagioli. Mia madre lì ha vissuto il suo giorno più felice nel mondo, nella sua povera vita. Visto che di solito nella Torah chiamavano gli ebrei più ricchi, più rispettati, che potevano offrire di più alla sinagoga, è stata la prima volta che hanno chiamato mio padre, Sandor, che ha indossato il taled, aveva una voce bellissima, cantava molto bene, e gli occhi viola azzurri di mia madre non li avevo mai visti così felici prima. Un altro momento molto felice, più o meno, è stato quando mia madre si è avvicinata a me, mi ha accarezzato i capelli, me li ha pettinati, e mi ha fatto due trecce con dei nastri rossi e dei fiocchi. “È finita”, ho pensato io, lei era troppo buona e tenera, non era più quella severa e disciplinata che non aveva tempo per amare i figli».

E dopo quanto sono arrivati i tedeschi?
«Dopo cinque settimane di perquisizione, venivano sempre due alla volta, hanno cominciato a urlare, per me erano estranei. Neanche nemici, è che non avevo idea di chi fossero, io ero una bambina, entra un estraneo e ti chiedi chi sia, visto che non capisci la sua lingua, non riconosci l’uniforme. Mia madre si è tagliata i capelli dietro la porta, come gli ebrei ortodossi. “Mamma, cosa fai?”, le ho chiesto. Aveva dei capelli lunghi e neri bellissimi. “Non voglio andare all’inferno con i capelli”, ha risposto lei. In quelle cinque settimane, sembrerà strano, ma ero contenta, vedevo sempre mio padre, i ragazzi giocavano con me, ero una bella signorina, mi guardavano, eravamo tutti uguali. Solo mia madre intuiva il pericolo. Verso il 22-23 maggio del ’44 i tedeschi, con l’aiuto dei fascisti ungheresi, ci hanno caricato sui vagoni piombati. Ottanta in un vagone, lì è cominciato l’inferno: uno urlava, un altro moriva, un altro chiedeva l’acqua, un altro ancora aveva fame. C’era solo un secchio per i bisogni, ma neanche un posto per sedersi. Dopo tre giorni e quattro notti siamo arrivati ad Auschwitz, e ci hanno buttato giù in un batter d’occhio. I tedeschi urlavano come demoni, non vedevo più nessuno, hanno separato tutti. Io sono andata a sinistra con mia madre perché loro giudicavano con gli occhi quanti anni potevi avere. Al crematorio dovevano mandare quelli fino ai 16 anni e dai 45 in su, e la generazione di mezzo era destinata ai lavori forzati. Non chiedevano nulla, tu non eri più niente, non esistevi. Io mi sono aggrappata a mia madre, l’ultimo tedesco mi diceva “Recht! Recht!”, “Destra! Destra!”, io dicevo “Nein! Nein!”, urlavo, mia madre urlava, si è inginocchiata davanti al tedesco implorandolo di risparmiare la più piccola, cioè io. Mi hanno salvato cinque volte, una di queste è quando un cuoco a Dachau mi ha chiesto come mi chiamavo e io ho detto Edith, fino a quel momento ero solo un numero, 11552. Quel “come ti chiami” mi ha fatto sentire viva».

Cos’è successo dopo la separazione dagli altri?
«Ci hanno rasato, menato, tolto i peli. Ci hanno dato una palandrana grigia senza l’intimo e un paio di zoccoli. Quando siamo scesi mia madre mi ha chiesto di cercare mio padre, lei non lo vedeva più. Io ho visto centinaia di uomini nudi magrissimi che camminavano e ho detto “sta lì, sta lì!”, ma non era lui. Ci hanno messi in fila a forza di urli e botte, eravamo esseri orribili, calvi, tutti uguali. Alla baracca 11 del lager C di Auschwitz continuava la selezione, l’unico lavoro che ho fatto lì era portare il bidone con le feci. Eravamo tutti divisi per sei, è cominciata la follia della fame. Ad Auschwitz la vita media era di tre mesi, noi abbiamo resistito perché avevamo avuto una vita dura anche prima, chi veniva dalla classe borghese aveva più difficoltà. Gli uomini morivano prima delle donne, erano cresciuti protetti da madri, sorelle, nonne, erano indifesi, disarmati, viziati, vittime della loro cultura, la donna aveva più furbizia, si strappava un pezzo di palandrana e ci si copriva le orecchie, e per un pezzetto di pane, con un pezzo di carta crespa rossa, si dipingeva le gote per sembrare in salute e non farsi portare via. Sono stata tre mesi lì, con mille problemi, dalle botte di quelli del servizio della Stube, che distribuiva la zuppa, a quando dovevo fare la pipì e la baracca era chiusa. Si poteva alle cinque della mattina e del pomeriggio e ho fatto pipì nella gavetta dove davano da mangiare, una donna mi ha scoperto e mi ha fatto inginocchiare cinque ore, non c’era nessuno che la sorvegliava. Lei era una dei tanti ebrei deportati lì nel ’42 che coprivano i malfatti ed erano passati dall’altra parte, non li ho mai denunciati o giudicati, non so come mi sarei comportata io al posto loro, in quella disumanizzazione totale».

È vero che è passata per sette campi in un anno?
«Sì, ci hanno portato a Dachau, dove quel tedesco mi ha chiesto “come ti chiami?”, era la voce di Dio. Lì è stata una fatica, portare traversie, legni di traversa, per le ferrovie, pesavano 40 volte più di me, e poi abbiamo scavato trincee, si sentivano allarmi e bombardamenti, l’Italia del sud era già liberata, noi non sapevamo nulla. Più si avvicinava la Liberazione, più ci portavano lontano, Auschwitz è stata liberata il 27 gennaio, ma l’ultimo campo è stato liberato dopo il 15 maggio, erano molto più morti dopo di prima. Poi ci hanno portato a Bergen-Belsen, poi a Christianstaadt, vicino all’Olanda. Da lì la marcia della morte per tornare a Bergen-Belsen, cinque settimane, giorno e notte, a camminare. “Non preoccupatevi, se non potete più camminare ce lo dite e vi portiamo in ospedale”, hanno detto i due sorveglianti. Al primo che ha detto che non poteva più camminare gli hanno sparato e noi abbiamo capito cosa voleva dire non poter più camminare. Siamo partiti che eravamo 1000 donne e siamo tornate in 25, io pesavo circa venti chili e mia sorella mi trascinava per terra sul ghiaccio come fossi un corpo morto. Quando siamo arrivati a Bergen-Belsen, dopo due giorni, ci hanno portato nel campo degli uomini ed era pieno di cadaveri, hanno detto che ci davano una doppia razione di zuppa se eravamo disposti ad andare alla stazione a portare i giubbotti per i soldati. “Andiamo!”, ha detto mia sorella. Avevo tutte le gambe insanguinate, guardi, si vede ancora, ero tutta congelata fino all’osso. Dodici giubbotti ciascuno, ho detto a mia sorella che non ce la facevo più. Era febbraio, alle tre di pomeriggio faceva buio, lei mi ha detto di buttare giù quattro cappotti, che li avrebbe presi lei, non se ne sarebbero mai accorti. Dopo un po’ la neve era ricoperta di giubbotti, e il tedesco ha urlato: “Chi ha cominciato?”. Regnava il silenzio, l’ha chiesto tre o quattro volte, ha tirato fuori la pistola e ha detto “Se non esce fuori, sparo!”, io ho fatto un passettino, mi si è avventato contro e mi ha ferito dietro a un orecchio. La neve era piena di sangue, mia sorella si è scagliata contro il tedesco e poi è corsa verso di me, mi ha abbracciato, ha detto: “Adesso diciamo la preghiera della morte”. Io non sapevo pregare, vedevo il tedesco lontano cinque o sei metri, ho contato otto passi, veniva verso di noi pulendosi i pantaloni dalla neve, la morte stava venendo verso di noi, ma invece della pistola mi ha allungato la mano, eravamo tutti “agghiacciati”, e ha detto: “Se oggi un merdoso, rognoso, schifoso cane di ebreo osa mettere le sue sporche mani su un tedesco allora merita di sopravvivere”. Mi ha aiutato nella mia camminata al ritorno, sembravo un cane zoppo con la diarrea. Al campo poi è scomparso, io speravo che mi portasse un po’ di zuppa. Quando tu hai fame sei cieco, non capisci nulla. Abbiamo ripulito il campo dai cadaveri, ci hanno riconsegnato uno straccio piccolo per arrotolarlo intorno alle caviglie dei morti, trascinarli e accumularli in una sorta di piramide. lì non ci davano più da mangiare. Non c’era più disciplina né orari, pensavamo che fosse finita, che ci avrebbero abbandonati».

E poi cos’è successo?
«Il 15 aprile siamo andati all’appello, guardavamo il cielo e speravamo che succedesse qualcosa. Erano le 5 del mattino e nessuno veniva a contare, erano passate ore. Mia sorella è andata nella cucina dei tedeschi, è andata in cucina, è tornata con una rapa e ci ha detto che i tedeschi erano scomparsi. Improvvisamente arrivano delle jeep, eravamo tutti sull’attenti. Chi sono questi? Altri tedeschi? Ma che uniformi hanno?, ci siamo chiesti. È arrivato un ebreo americano che parlava yiddish e diceva “Free! Free! Frei! Frei”, strillavano tutti, svenivano, con un bastone puntato verso di noi ci hanno fatto capire che dovevamo spogliarci. Per la prima volta mi sono vergognata, con i tedeschi non mi era mai successo, erano loro che dovevano vergognarsi per come ci avevano ridotto. Ci hanno dato un vestitino rosa a fiorellini, senza mutande e senza scarpe, ci hanno detto “Go! Go! Go!” indicando i camion, che ci hanno portato all’ospedale militare di Bergen-Belsen, e lì hanno cominciato a nutrirci giorno per giorno. C’era un tedesco che mi ha dato un guanto una volta, un altro un po’ di marmellata, mi hanno dato la speranza di raccontare un giorno quello che sto raccontando a lei adesso. Come le dicevo, non è mai tutto nero nella vita, c’è sempre un bagliore, una luce, anche dopo aver visto sette campi in un anno. Un’esperienza per la vita, non ne esci, non solo per gli altri che ti fanno sentire sempre un sopravvissuto, ma anche perché hai incontrato la bestialità, una disumanità che proveniva da un paese colto e civile con la complicità di tutta Europa. Comunque deve sapere che ogni ebreo è diverso, anzi, come racconta una vecchia barzelletta, due ebrei pensano tre cose diverse. Io darei la vita per far la pace con i palestinesi, nessuno vale più degli altri, la vita è cara per tutti, e ogni singola vita è un mondo. Ho imparato a rispettare il mio prossimo, sono priva di odio verso chiunque. In un mio libro, Lettere alla madre, ho scritto che preferisco essere figlia di un padre assassinato, che di un padre assassino».

E secondo lei, qual è la differenza tra la sua esperienza nei campi e quella che ha vissuto Primo Levi?
«Lui ha vissuto con maggiore coscienza politica, era un intellettuale borghese, più fragile di me. L’ha vissuto dall’interno e dall’esterno, ha registrato tutto dall’ottica di un uomo privilegiato socialmente. Era più cosciente, io invece ero un animale che viveva tutto istintivamente».

Aveva un bel rapporto con lui? Quando vi siete conosciuti?
«A Torino su un set, stavano mettendo in scena un mio racconto (Silvia). Lui è venuto e sembrava sorpreso, intimidito, si guardava intorno, vedeva le luci, sembrava Alice nel paese delle meraviglie. La moglie era gelosa di noi anche perché avevamo un rapporto silenzioso, non avevamo bisogno di parlare molto, tra di noi ci capivamo all’istante. Per me era un fratello maggiore, ci chiamavamo “fratelli del lager” ».

Ma è vero che è stato Primo Levi a incitarla a scrivere?
«No, è una leggenda. Scrivevo già nel ’46, prima di conoscerlo, ma ho dovuto buttare via tutto quello che ho scritto per riuscire a fuggire dall’Ungheria. I miei primi libri li ho fatti leggere a due critici cinematografici, mi vergognavo di farlo leggere a mio marito Nelo, che non faceva altro che urlarmi da una stanza all’altra di correggere le doppie, le sbagliavo sempre».

E com’era nel privato Primo Levi? Che uomo era?
«Aveva anche dei lati negativi, come tutti gli uomini. Era molto ambizioso come scrittore. Era bravo, molto presente, e mi chiedeva spesso se conoscevo qualcuno che potesse fare una scheda del suo romanzo per mandarlo in Ungheria. A volte era molto concentrato su se stesso e sul suo lavoro, e questo l’ha portato a trascurare la sua famiglia, ma capisco che non è facile essere un sopravvissuto».

E quanto è durata la vostra amicizia?
«Fino a quattro giorni prima della sua morte, quando mi ha chiamato dicendomi: “Si stava meglio ad Auschwitz, almeno lì c’era speranza”.

Era disperato per il negazionismo, e aveva dimenticato tutte le lingue che conosceva. Quando il cognato mi ha chiamato per dirmi che Primo si era suicidato ho fatto una scenata, ho cominciato a urlare che era il più ascoltato, non aveva il diritto di farlo. La nostra vita non appartiene solo a noi. Appartiene anche alla storia, a quelli che non ci sono più, noi dobbiamo parlare, scrivere, ricordare sempre, anche per loro».

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