Le attese della Capitale/ IL SOLLIEVO PER ROMA E LA FINE DEGLI ALIBI

Virman Cusenza
di Virman Cusenza
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Domenica 11 Novembre 2018, 00:03 - Ultimo aggiornamento: 18 Giugno, 23:50

Il destino, a volte, non è affatto imperscrutabile. Ieri ha messo a confronto due piazze, distanti l’una dall’altra centinaia e centinaia di chilometri. Quella giudiziaria di Roma, che si è conclusa con l’assoluzione del suo sindaco dall’accusa di falso in atto pubblico. E quella tutta politica di Torino, che ha emesso un verdetto di condanna nei confronti della Appendino, altra sindaca cinquestelle, accusata di aver bloccato un’opera infrastrutturale determinante per il Paese: la Tav. 
 


Da garantisti e da cittadini di Roma ci sentiamo sollevati, per un verso. Perché una sentenza ha evitato che per la seconda volta in tre anni, un atto della magistratura cambiasse il corso amministrativo e politico della Capitale. La sindaca assolta ha pianto le sue lacrime di gioia, la città ha evitato una gogna che avrebbe prolungato ulteriormente la sua agonia che ormai dura da troppi anni. Ha vinto un senso di giustizia che è figlio di Montesquieu e della sua divisione dei poteri, quello per il quale l’autonomia politica viene rispettata quando non sconfina in arbitrio che genera reati manifesti e acclarati. 

Un processo in realtà è qualcosa di diverso da quel giudizio parallelo che con logica aberrante i cinquestelle hanno stilato al punto da farne un codice. Se oggi Virginia Raggi può uscire sorridente dall’aula di giustizia è per il vero codice di procedura penale, che tra l’altro non impone le dimissioni a fronte di pene che non superano una certa soglia, e non certo per quello fittizio del suo movimento che l’avrebbe costretta a dimettersi lasciando casacca e carica. Una lezione di cui sarebbe bene che il primo partito della maggioranza di governo facesse tesoro in futuro con i suoi stessi rappresentanti e con gli avversari.

E veniamo al punto, anzi alla tentazione che molti cittadini, non solo romani, non hanno osato confessare nemmeno a se stessi. Alludo a quell’istinto di sovrapporre - con grave errore per i principi dello Stato liberale e di diritto - il piano dell’insoddisfazione civile a quello penale. In sostanza, sperando che la condanna potesse risolvere un problema che è squisitamente politico. Per fortuna questo cortocircuito è stato battuto dalla sentenza di ieri, impedendo scorciatoie che non sono mai democratiche. Il magistrato ha lasciato alla politica il suo ruolo, togliendole anche l’ultimo alibi. In base ai meccanismi democratici, per emettere un verdetto politico prima deve esaurirsi un percorso: se ciò accade bruscamente e brutalmente attraverso un verdetto giudiziario resterà sempre nell’aria una recriminazione possibile, un alibi appunto. Non abbiamo già sentito ripetere in passato, ossessivamente, il ritornello del “non mi hanno lasciato governare”? Ciò, lo dimostra la storia, ha inceppato e avvitato su se stesso un sistema già complesso e imperfetto. Allungando stagioni di sicuro non memorabili.

Proprio per questo ieri il vicepremier Luigi Di Maio - in un attimo di irripetibile sintonia con i suoi pasdaran - aveva poco da festeggiare, lanciando insulti e invocando museruole per la stampa rea di aver riportato negli ultimi due anni un’inchiesta della Procura di Roma. Alla vigilia i vertici M5S avevano annunciato le eventuali dimissioni della sindaca in base al codice, dimissioni che non certo l’opinione pubblica aveva sollecitato ma solo la giustizia parallela di un codice di partito. Ma capiamo il legittimo nervosismo di fronte a manifestazioni, queste sì di protesta politica, che hanno espresso profonda insoddisfazione civica proprio nelle due città simbolo in cui governa un rappresentante di M5S. 

Ed è proprio di questo sentimento, diffuso e ormai radicato tra gli abitanti della Capitale, che dobbiamo occuparci costruttivamente. L’assoluzione della Raggi di sicuro ha evitato l’ennesima rissa tra i partiti sulla pelle di Roma. Calcoli politici, candidature, equilibri di governo in gioco, tutto per fortuna è stato spazzato via. Almeno per il momento, ed è un bene. Meglio focalizzarsi sui due anni e mezzo della amministrazione Raggi di cui i cittadini hanno subito una escalation negativa proprio negli ultimi mesi sui fronti più cruciali: dai trasporti ai rifiuti alla legalità. E non certo perché la sindaca fosse sotto scacco a causa del grave fardello del processo. No, qui parliamo d’altro: d’efficienza e di competenza. 

Adesso, Virginia Raggi ha davanti a sé l’altra metà del mandato e da abitanti di Roma ci auguriamo che inizi una miracolosa ripartenza, magari contando sul governo amico.
Fino ad oggi sono mancati idee, progetti e interpreti che ne autorizzassero la speranza. Due gli scenari possibili per il sindaco: o promuovere un ribaltamento della realtà che garantisca cure anti-declino a Roma o consegnarsi così, fra due anni e mezzo, al giudizio dei cittadini che temiamo possa essere per lei assai meno clemente del giudice che l’ha assolta ieri.

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