Francesco Grillo
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Piano dell’esecutivo/ La svolta verde deve ripagare i soldi spesi per realizzarla

di Francesco Grillo
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Martedì 29 Dicembre 2020, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 00:38

Non c’è nulla di più universalmente accettato della retorica di dover diventare più “verdi”. E nulla è tanto più disatteso quando si tratta di cambiare abitudini sbagliate. Alla sostenibilità (parola di cui urge un chiarimento) riserviamo, del resto, lo stesso trattamento che, per anni, abbiamo usato con il rischio di pandemie: troppo lontano per potercene preoccupare sul serio, fino a quando non ne siamo stati travolti. Eppure è proprio su questa partita che, ovviamente, il Paese più bello del mondo si gioca le sue carte migliori. 

Quali sono, allora, gli elementi che possono articolare il capitolo dedicato alla “transizione ecologica” e che è il più importante del Recovery Plan? In maniera da superare le condizioni imposte dai regolamenti comunitari ed essere all’altezza della responsabilità nei confronti di chi dovrà abitare il futuro? Metriche che non si riducano a quelle del cambiamento climatico per disegnare obiettivi nei quali si riconoscano tutti; incentivi intelligenti per allineare gli interessi di imprese e famiglie e quelli del Paese nei settori decisivi (automobili, case, rifiuti, manifattura e agricoltura,rinnovabili; strumenti finanziari concepiti per fare in modo che tutti i progetti ripaghino l’investimento; sperimentazioni per produrre conoscenza condivisa; un’azione di coinvolgimento poiché la rivoluzione chiede a tutti comportamenti diversi.

Sulla transizione energetica che tutti i grandi Paesi - e persino le grandi multinazionali del petrolio e delle automobili - accettano come ineluttabile, pesa in realtà un equivoco: l’idea, cioè, che essa richieda un tributo in termini di Prodotto interno lordo, consumi, occupazione. In realtà, se si prova a sistemare i Paesi del mondo su una mappa misurandone, da una parte, la riduzione delle emissioni di CO2 e, dall’altra, la crescita economica, si scopre che non necessariamente quelli che crescono di più sono quelli che maggiormente inquinano. Sul verde passano, in realtà, quasi tutti i più importanti treni del progresso tecnologico degli ultimi anni: lo dimostra la Cina, che sull’elettrico sta costruendo formidabili vantaggi competitivi ed è un fatto che conosce molto bene Francesco Starace, che è l’amministratore delegato della seconda più grande impresa di produzione e distribuzione di energia del mondo, quell’Enel che è ormai tra le poche (vere) eccellenze italiane di dimensioni globali.

Il verde può e, anzi, deve ripagare l’investimento e le scelte che esige. Ed è questo, dunque, il punto dal quale la strategia di transizione ecologica deve partire. Laddove, invece, il documento del Governo (il Pnrr da 209 miliardi) sembra adottare pigramente quella logica del finanziamento a fondo perduto che ci farebbe perdere subito.

In questo senso, la riduzione degli obiettivi della transizione al solo contrasto del cambiamento climatico può essere controproducente. Il riscaldamento globale è, certamente, una delle grandi minacce che ci aspetta e, tuttavia, ridurre una malattia assai più ramificata ad una sua sola degenerazione, ha l’effetto collaterale di proporre uno scambio tra presente e futuro che chi fatica ad “arrivare a fine mese” può rifiutare. E invece l’Italia deve, con più forza di altri Paesi, imporsi una riduzione anche delle polveri sottili (di cui muoiono, già, mezzo milione di europei all’anno secondo i calcoli dell’Eea) e che vedono proprio Milano come la zona più rossa dell’Unione. Il grafico che accompagna questo articolo dimostra come sarebbe altrettanto immediatamente comprensibile a tutti, in un Paese che non è più il centro dell’industria automobilistica europea, ridurre il tempo e lo spazio occupato da una tecnologia ormai obsoleta.

In secondo luogo, la strategia deve puntare a incentivi che responsabilizzino produttori e consumatori alla ricerca della massima efficienza.

Va bene investire tanto (40 dei 73 miliardi destinati alla rivoluzione verde) alla razionalizzazione dei consumi negli edifici pubblici e privati, come richiede la Commissione assegnandogli la priorità (“renovate”) dei “progetti bandiera” nel proprio documento sulla crescita sostenibile per il 2021. I super bonus, però, non bastano per innescare quel processo di innovazione di cui edifici ed edilizia hanno bisogno. Meglio sarebbe utilizzare l’occasione per fornire a banche in crisi di idee una leva per diversificare i propri servizi: farne l’intermediario obbligatorio di un beneficio che lo Stato paga direttamente alle imprese per conto dei residenti e che le remuneri con una parte dei risparmi che l’intervento produce nelle abitazioni. Uno schema simile – già utilizzato in diversi Paesi frugali – va utilizzato per interventi di riqualificazione di interi quartieri smontando lo stesso tabù del veto che i proprietari degli immobili possono opporre ad una responsabilità che è collettiva.

Gli strumenti finanziari da utilizzare devono, in terzo luogo, allontanarsi quanto più possibile dall’idea del regalo e devono essere disegnati in maniera che ripaghino lo Stato dello sforzo. Fondi chiusi per investire nel capitale di imprese che vogliano provare ad essere leader nei settori che la Commissione definisce di “power up” (ad esempio l’idrogeno o le batterie) vanno aperti alla partecipazione di investitori privati che vi contribuiscano con i propri capitali. Ciò può produrre il miracolo di moltiplicare le risorse, spendere più velocemente quelle disponibili, trovare competenze che l’amministrazione non possiede, fornire allo Stato liquidità per rientrare dal debito. 

La trasformazione comporta, poi, la necessità di colmare buchi di conoscenza su come riorganizzare intere città e deve passare attraverso l’utilizzo sistematico di sperimentazioni. Non ha senso pensare di spalmare decine di miliardi replicando interventi simili dovunque. Occorre che alcuni Comuni si propongano da laboratori per innovazioni di frontiera per poi condividerne i risultati. Catene di generazione e smaltimento di rifiuti domestici totalmente digitalizzate, dal supermercato al valorizzatore attraversando il frigorifero; città che scelgano di “ricaricare e rifornire” soprattutto veicoli elettrici: l’Anci potrebbe trasformarsi nel centro progettuale che gestisce e trasferisce la conoscenza prodotta.

Infine, una transizione di questo genere non può più permettersi di vivere attaccata a documenti le cui bozze sono classificate come riservate. Trasformare un Paese significa concepire un progetto che riesca a far leva sulla migliore intelligenza di una comunità e diventi parte della quotidianità di tutti. È vero che il riflesso condizionato di chiunque si trovi a dover gestire 200 miliardi di euro in un Paese come l’Italia è quello di proteggerne l’efficienza chiudendosi nelle stanze della Presidenza del Consiglio. Tuttavia, se provassimo a fissare un criterio chiarissimo – quello della responsabilità di chi si assume l’onere di gestire queste risorse – potremmo trovare l’energia senza la quale la ricostruzione non può neppure cominciare.
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