Francesco Grillo
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Il caso Qatar/ Se le carriere in Europa non sono legate ai risultati

di Francesco Grillo
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Lunedì 19 Dicembre 2022, 00:05

Non è la prima volta che le istituzioni europee sono scosse da un grande scandalo. Il 15 marzo 1999, l’intera Commissione Europea – presieduta dal lussemburghese Jacques Santer – dovette rassegnare le proprie dimissioni per una contestazione cominciata qualche mese prima per il rifiuto di un comitato del Parlamento Europeo di ratificare il bilancio comunitario. Anche allora, come oggi, trapelarono giudizi lapidari sull’attitudine di un intero sistema («Sembra che non ci sia più nessuno che abbia conservato il minimo senso di responsabilità», dichiarò uno dei controllori) e, tuttavia, le differenze oggi sono almeno due. Il “Qatargate” colpisce il Parlamento (che fu l’accusatore di Santer) e non – almeno per ora – la Commissione che dell’Unione è l’organo tecnico. Quell’Europa, inoltre, era al suo apogeo (la decisione irrevocabile di adottare l’euro era stata appena presa e si andava verso l’allargamento), mentre oggi l’idea è quella di una progressiva obsolescenza di istituzioni pensate per governare un contesto più stabile. 

Il Parlamento Europeo compie il prossimo anno 43 anni e fu introdotto come la prima (e finora unica) assemblea eletta da cittadini di Paesi che rimangono sovrani. Quella novità fu salutata come una sperimentazione da far crescere nel tempo e replicare anche da altre organizzazioni (ad esempio le Nazioni Unite) che provano a governare fenomeni globali. Nei nove Paesi (c’era ancora il Regno Unito) che facevano parte di quella che si chiamava Comunità Economica Europea, due elettori su tre parteciparono al voto. Willy Brandt provò per la prima volta a fare una campagna elettorale transnazionale viaggiando tra Italia, Francia, Olanda e quella consultazione portò alla scelta di Simone Veil come presidente del Parlamento. Da quell’eroica prima volta, man mano che i poteri dell’Unione e del Parlamento sono cresciuti, la partecipazione alle elezioni europee è regolarmente diminuita scendendo fino al 42% nel 2014. Le ultime elezioni del 2019, fecero registrare una piccola ripresa della partecipazione e però arrivarono al massimo storico i voti per i partiti per i quali il Parlamento europeo non dovrebbe neppure esistere. L’“attacco alla democrazia” di cui parla la Presidente Metsola, è figlio di questa parabola. 

La domanda è a questo punto: che fare, visto che siamo quasi tutti – dal punto di vista intellettuale e etico – convinti che oggi, più che nel 1979, non c’è alternativa allo stare insieme per governare un futuro che ci è sfuggito di mano?

La strada sbagliata è quella dei palliativi. Sembra una costosa aspirina quella della costituzione di autority che preservino l’integrità morale dei parlamentari: dobbiamo creare incentivi a perseguire interessi comuni e non solo sanzioni che scattino quando si manifestano patologie. Utile ma non risolutivo sarebbe poi l’introduzione di un meccanismo che assicuri che i parlamentari ricevano solo lobbisti registrati in un albo ufficiale: un parlamentare, come qualsiasi cittadino, ha il diritto e il dovere di sentire tutti quelli che le portano la materia prima fondamentale per prendere decisioni e che si chiama conoscenza. C’è, soprattutto, che tale cura non sembra partire dalla diagnosi giusta. I parlamentari europei diventano “catturabili” da interessi privati (laddove sarebbe un clamoroso errore limitarli al Qatar o anche solo ad un Paese terzo; molto più pervasive sono le influenze da parte delle stesse aziende europee) perché sono soli. Perché sono lontanissimi dai propri collegi elettorali. Molto più di quanto non lo siano i membri delle assemblee di democrazie nazionali pur esse in crisi. 
Se lo spazio mentale di un politico si svuota dell’onere e dell’onore di rispondere ad un elettorato, quel vuoto tende a riempirsi di altre attenzioni.

Incluse quelle indebite che hanno fatto esplodere una questione che è politica e che la magistratura (come succede in Italia) non può risolvere.

L’idea è realizzare quella promessa di democrazia che il Parlamento europeo fece 44 anni fa. E che però esige di tornare all’intuizione che fu di un gigante come Willy Brandt per il quale l’Europa era un sogno da realizzare viaggiando tra quei Paesi che erano stati divisi dalla guerra. Bisogna creare occasioni di confronto, se necessario di conflitto civile tra posizioni diverse che non dividano però le opinioni pubbliche lungo confini solo nazionali; meccanismi elettorali che consentano ad un francese di essere eletto in Italia (cosa inaudita) o viceversa; e facciano corrispondere all’assemblea europea collegi che siano europei ed elettori che conoscano e dialoghino con chi li rappresenta. Tentativo questo ripetutamente bocciato dall’ipocrisia di chi oggi si scandalizza. Del resto, un sistema che finisce con l’isolarsi a Bruxelles (e a Strasburgo) può avere effetti analoghi anche sulla stessa Commissione Europea: un’amministrazione che non trova un “freno” nella politica supera i propri scopi. La Commissione è formata da alcuni dei migliori funzionari ed è urgente che la “riforma” ponga il punto di legare le carriere a risultati stabiliti all’inizio di ogni periodo. Gli inglesi (quelli usciti dall’Unione) parlano di “accountability” (significa “rendere conto”) come unica, vera possibilità di evitare che le istituzioni a cui siamo affezionati, possano degradare. Oggi abbiamo un’Europa che ha perso il sacro fuoco che ispirava Simone Veil e, persino, la visione che motivava quel Romano Prodi che si trovò a rispondere alle dimissioni del predecessore Jacques Santer. Eppure, l’indispensabilità di risposte europee è ormai riconosciuta da qualsiasi parte politica, perché sarebbe ancora più chiaramente ridicolo pensare di affrontare i problemi che ci sovrastano a livello nazionale. Abbiamo bisogno di coraggio e non di retoriche aspirine.
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