Francesco Grillo
Francesco Grillo

Se le grandi imprese globali digitali sono in crisi

di Francesco Grillo
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Domenica 11 Dicembre 2022, 00:21

“Il computer è la più straordinaria delle invenzioni che compongono l’abito tecnologico dell’uomo. Esso costituisce un’estensione del nostro sistema nervoso. È anzi il mondo stesso che si trasforma in sistema nervoso digitale al quale affidiamo i nostri sensi”. Uno dei paradossi dei quali è piena la storia di Internet è che il più grande studioso di Internet è stato un filosofo che ha scritto prima ancora che quella tecnologia fosse inventata. Marshall McLuhan intuì che stava cominciando ciò che è un errore ritenere solo una rivoluzione industriale. Stiamo infatti vivendo una mutazione biologica. Una trasformazione dei processi attraverso i quali trasformiamo informazione in conoscenza. Non potremo mai concepire una strategia sul digitale; mai davvero capire cosa ha fatto crescere le stelle di Silicon Valley e per quale motivo sembrano oggi cadere; se non partiamo da una comprensione della natura del cambiamento che l’Europa sta provando a regolare.
La settimana scorsa, in un seminario che si è tenuto alla Luiss, la società di consulenza Vision & Value ha presentato un rapporto sull’impatto della grande trasformazione sull’economia italiana ed europea. A fornire la fotografia di quanto sia enorme il successo delle grandi imprese globali digitali, sono i dati dei mercati finanziari. E, cioè, quelli sulla capitalizzazione, sul valore che le borse attribuiscono, agli utili che tali imprese potranno generare, nel futuro prevedibile, per i propri azionisti. La sola Apple vale più dell’intero mercato azionario tedesco, dove sono quotate 500 aziende, tra le quali le regine della manifattura europea (da Siemens a Volkswagen). Se consideriamo solo cinque imprese – Microsoft, Alphabet/ Google, Amazon, Meta/ Facebook oltre che Apple – esse valevano nel 2020 un quarto dell’intera borsa di New York. 
E, tuttavia, gli ultimi mesi dimostrano che non è vero che esse godono di rendite di posizione durature (come sembra ritenere la Commissione Europea). Meta ha perso il 70% del proprio valore in un anno; Netflix il 60% ed entrambe subiscono i morsi della competizione. Se fosse una persona, Facebook sarebbe da poco diventata maggiorenne (fu fondata nel 2004), ma sta perdendo utenti che gli strappa la cinese TikTok che di anni ne ha appena sei. E non è neppure detto che bisogna essere giovanissimi per competere: la Disney compie l’anno prossimo cento anni, ma risponde colpo su colpo alla sfida di Netflix che distribuendo film su Internet aveva messo in crisi il cinema tradizionale. 
È una storia in rapida evoluzione quella delle infrastrutture digitali attraverso le quali ci scambiamo beni, servizi, idee, amicizie e che definiscono questo secolo nuovo. Una storia fatta di ascese che appaiono inarrestabili e di cadute altrettanto veloci. Quella che oggi attraversiamo è una crisi di crescita. Che può portarci ad un mondo più equilibrato. Se però cambia sia l’atteggiamento dei governi nei confronti di un fenomeno di cui hanno perso il controllo; sia quello delle grandi imprese che hanno innescato processi che hanno implicazioni non più solo aziendali.
Non può, ad esempio, l’Europa pretendere di rientrare in una partita per la leadership digitale globale che non ha mai realmente giocato, solo attraverso regolamentazioni monumentali. Sono dieci le direttive e i regolamenti che l’Unione ha approvato o sta approvando solo negli ultimi sei anni, per un totale di 726 pagine e 563 articoli: il rischio è che solo le multinazionali più grandi siano dotate di uffici legali sufficientemente attrezzati per capire cosa fare. Più utile sarebbe, invece, focalizzarsi sulla costruzione di un tessuto di imprese digitali europee capaci di competere con quelle americani e cinesi, infrangendo quel tabù dei cosiddetti “aiuti di stato” che Stati Uniti e Cina non esitano a utilizzare per favorire la crescita dei propri “campioni”. Ciò è successo in passato e succede oggi con il grande progetto di politica industriale (la legge sulla “riduzione dell’inflazione”) su cui il presidente Biden scommette il proprio futuro politico.
È vero, però, che anche le multinazionali americane devono riconoscere la portata della mutazione che hanno innescato. E la natura persino “pubblica” dei beni che esse producono proprio per essere “infrastrutture”. Ne fu esempio Google durante la pandemia quando mise il proprio patrimonio più importante – i dati – a disposizione dei governi di Israele e Corea del Sud per reagire all’emergenza sanitaria. O le stesse partnership che Airbnb e Expedia hanno sviluppato con città e regioni italiane per conoscere meglio i bisogni di turisti da attrarre nel proprio territorio. Fa bene Amazon a fornire a 20.000 piccole imprese italiane una vetrina digitale per accedere a mercati globali. Laddove, da antiche competizioni possono nascere scambi interessanti: nell’incontro della scorsa settimana, Amazon e Messaggerie – il più grande distributore di libri in Italia – hanno ammesso che stanno imparando reciprocamente. E, tuttavia, riconoscere un proprio ruolo pubblico apre questioni ineludibili e di non facile soluzione: persino Elon Musk non potrà non riconoscere che la propria nuova creatura -Twitter – condiziona il dibattito pubblico anche solo attraverso l’algoritmo che definisce con quale ordine vedi i “cinguettii” di politici e giornalisti.
Il pericolo più grande che McLuhan intravedeva è nel torpore che qualsiasi tecnologia può indurre. Dalla crisi di crescita di Internet, usciamo solo se Internet diventa leva di sviluppo a disposizione di tutti. Per riuscirci abbiamo bisogno però di grande intelligenza. Quella che forse abbiamo perso in un oceano di informazioni.
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