Anna Coliva

La necessità di definire il valore di un’opera d’arte

di Anna Coliva
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Giovedì 29 Dicembre 2022, 00:05

Nel 2022 cadeva il 120° anniversario della Galleria Borghese come museo dello Stato. La vicenda dell’acquisizione dell’edificio e delle sue collezioni, già appartenenti all’antica famiglia di papa Paolo V, si concluse nel 1902 dopo un percorso parlamentare così lungo e turbolento da far temere che il prodigioso insieme di edificio, collezione e parco andasse disperso. Solo con fatica, a volte con fastidio, è diventata patrimonio di tutti noi ed oggi è un simbolo e un orgoglio nazionale. Proprio per celebrare l’anniversario è uscito quest’anno il catalogo generale della scultura che, tra le arti rappresentate nel museo, è il vero emblema della Galleria Borghese. I cataloghi generali sono opere impegnative che richiedono anni di studi che spesso si preferisce non affrontare ricorrendo piuttosto a guide brevi e post ammiccanti. Ma allora perché studiare? Vediamo.

L’insieme della Villa, del parco e delle raccolte fu opera del cardinal Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V. Sapiente collezionista, non privo di cupidigia, di talento sicuro sino alla spavalderia nel riconoscere la qualità, si impose sui contemporanei per il suo ideale del tutto nuovo di collezione che si incarnò nello stesso edificio che la conteneva. Le vicende che portarono questo magnifico insieme a passare da possedimento privato a superlativo museo pubblico furono legate alla rovina cui andarono incontro molte antiche famiglie romane nella rincorsa allo sfrenato sviluppo edile della città divenuta capitale del nuovo Regno d’Italia. Le sciagurate speculazioni edilizie della seconda metà dell’Ottocento, intraprese già allora senza ordine urbanistico, provocarono la perdita di enormi capitali. I Borghese furono obbligati a disfarsi degli ingenti beni patrimoniali, la Villa e le collezioni innanzitutto, con pericolo di dispersione delle preziosissime opere. Ma il clamore internazionale suscitato dalla vendita ai Rotschild di un ritratto di Cesare Borgia, ritenuto di Raffaello, per la somma ingentissima di 600.000 lire, fece avvertire a livello governativo l’opportunità di assicurare la raccolta ai beni dello Stato. Iniziò così l’estenuante vicenda dell’acquisizione pubblica, destinata a durare per ben dieci anni a causa dell’irresolutezza decisionale in fase di approvazione parlamentare, della successione incessante di governi che facevano decadere i decreti legge, delle obiezioni circa l’insostenibilità della spesa per le disastrate - già allora - casse dello Stato. Finalmente nel 1902 la collezione Borghese assieme alla Villa divennero proprietà dello Stato sotto la voce di “spesa di interesse nazionale” per la somma complessiva (e ingente) di tre milioni e seicentomila lire.

Qui ritorna la questione del perché studiare, che interessa l’attuale dibattito sulla redditività della cultura. Per la vendita fu necessaria la stima delle opere, affidata ai massimi esperti dell’epoca, Wilhelm Bode per Casa Borghese ed Adolfo Venturi per lo Stato. La loro valutazione ha un’importanza eccezionale per la Storia dell’Arte come storia economica della cultura, in quanto attesta l’inutilità delle valutazioni finanziarie del nostro patrimonio artistico se basate sugli aggiornamenti degli indici monetari o inflattivi. Il tema è infatti molto più rilevante e complesso e riguarda il valore aggiunto apportato alle singole opere da studio e ricerca. Intendendo proprio valore economico tangibile, trascurando per un momento l’indotto di quel valore immateriale che struttura una società su tutti i piani, quindi anche su quello economico.

Lo dimostra, tra i tanti esempi che si potrebbero fare, la stima della Danae di Correggio, un milione di lire, ex equo con Raffaello e seconda solo all’Amor Sacro e l’Amor Profano di Tiziano (due milioni), che era il campione incontrastato del mito della pittura veneta. Invece l’accezione di valore conferito a Correggio fu dovuta all’elemento imprevisto e fondamentale della conoscenza: in questo caso agli studi magistrali e innovativi sul rinascimento emiliano e ferrarese intrapresi da Adolfo Venturi. Al contrario, sul Barocco e sul Seicento in generale gravava lo stigma dell’accademismo classicista ottocentesco che ostracizzava gli studi su questo periodo. A farne le spese, in tutti i sensi, fu Bernini che vide apprezzato con una cifra rilevante il solo Apollo e Dafne e unicamente per la grande fama e popolarità dell’opera. Stima che in ogni caso era la metà di quella della Venere Vincitrice di Canova. L’algido ideale rinascimentale del tempo portò a valutare una copia di Tiziano del Sassoferrato il doppio del Pontormo. Ma quando i primi studi sul manierismo cominciarono a diffondersi cambiò il punto di vista e si assistette a veri fenomeni di infatuazione per Pontormo, Rosso Fiorentino o Parmigianino, i cui esiti sono scritti nero su bianco nei risultati delle aste a partire dal dopoguerra. Ovviamente quello che più colpisce è la risibile valutazione riservata ai quadri di Caravaggio, 100 lire del Ragazzo col canestro di frutta, 1.500 lire del Davide con la Testa di Golia che non arrivò neppure alle 2.000 lire di Carlo Dolci. Oggi il valore di Caravaggio ha raggiunto Tiziano e Raffaello ai vertici delle stime aggiornate del museo. Di quelle del mercato internazionale neppure a parlarne. 

Perché questa eccezionale rivalutazione? Per il cambio di gusto che non fu spontaneo ma conseguenza della forsennata passione caravaggesca seguita agli studi pionieristici di Lionello Venturi e Roberto Longhi, capaci di ribaltare gli orientamenti della società e creare la moda. È il gusto di un’epoca: e il gusto di un’epoca non è un fenomeno di costume ma viene forgiato e indirizzato dalla diffusione delle conoscenze, cioè dalla ricerca che diviene patrimonio comune sino prevalere sulle ipotetiche assolutezze dei valori che sono quelle che aggiornano la valutazione del nostro patrimonio artistico complessivo, anche in funzione del Pil. 
Una seria politica culturale che affermi su basi concrete il concetto di redditività della cultura dovrebbe partire da qui per stabilire in quali proporzioni lo studio porti incremento di valore. Lo Stato attraverso il MIC dovrebbe incoraggiare ricerche sofisticate nei campi interdisciplinari da noi trascurati per misurare la proporzione di tale valore, intendendone proprio il valore monetario, superando la diffidenza, del tutto recente (e populista) verso la traduzione in denaro sonante del valore di un’opera. Ricerche interconnesse tra economia e cultura sarebbero inoltre capaci di attrarre elevate competenze e professionalità internazionali in studi di altissimo livello, produttive di cultura viva e veramente contemporanea. Si tratterebbe di critica attiva capace di determinare questa sorta di valore aggiunto nei termini verificabili e concreti di creazione di valore stabile, dunque di reale redditività della cultura. Che sarebbe il modo per mangiare con la cultura fuori dal parassitismo dell’unica via economicistica sinora intrapresa, quella delle antichità turistizzabili.

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