La restituzione alla comunità slovena della Casa della Cultura (assaltata e incendiata dai fascisti il 13 luglio di cent’anni fa) e l’omaggio comune a Basovizza (foiba-simbolo degli italiani scacciati dalle loro storiche terre d’insediamento e spesso brutalmente uccisi dopo il 1943 e luogo dove nel 1930 furono fucilati quattro oppositori sloveni alla politica di italianizzazione forzata perseguita dal regime mussoliniano) sono gesti finalizzati non tanto a costruire una memoria condivisa, come spesso si dice, operazione impossibile dal momento che le memorie sono sempre soggettive, parziali e per definizione non compensabili, quanto a impedire che il settarismo ideologico si sommi alla tentazione dell’oblio.
Quello che oggi si rischia, infatti, è il diffondersi di una perversa miscela fatta di fanatismo e ignoranza: da un lato, la strumentalizzazione del passato per ragioni politiche contingenti; dall’altro, la liquidazione della storia come dimensione della conoscenza dalla quale si ritiene di non poter più ricavare alcun insegnamento o lezione.
Opposta sembra invece la scelta operata congiuntamente da Italia e Slovenia: ricordare il passato, anche se si tratta di ferite dolorose, non con l’idea di rivangarlo sul filo degli opposti risentimenti e delle continue recriminazioni, ma per lasciarselo definitivamente alle spalle come segno di una raggiunta maturità. Operazione che impone, al contrario della mentalità iconoclasta e dissacratrice che stiamo vedendo all’opera in queste settimane, un ripensamento critico di ciò che si è stati e di ciò che si è fatto. Ne possono derivare anche forme di pubblico e talvolta necessario pentimento (laddove l’ammissione degli errori commessi non può equivalere ad senso di colpa autodistruttivo o alla negazione di sé), ma può derivarne soprattutto una migliore, cioè più completa e meno settaria, conoscenza del passato proprio e altrui. Nella consapevolezza che i torti e le ragioni della politica e della storia difficilmente possono essere giudicati secondo criteri astrattamente morali, tantomeno sottoposti al tribunale postumo della ragione: i cui giudizi tanto più sono intransigenti tanto più risultano inevitabilmente iniqui e sommari.
Si tratta di un approccio costruttivo al passato – né afflittivo su piano dei valori, né liquidatorio sul piano dei fatti – che l’Europa, proprio perché a lungo dilaniata da divisioni e contrasti interni, nonché dal peso di troppe memorie in conflitto, sembra indicare come strada maestra, sul piano civile e intellettuale, al posto del furore distruttivo che in questo momento anima ad esempio un pezzo della società americana e molte frange radicali in diversi Paesi occidentali (Italia inclusa). Le democrazie, proprio perché riconoscono il pluralismo dei valori e degli interessi, fanno i conti con la storia e le sue contraddizioni spesso tragiche. I totalitarismi, nella misura in cui negano ogni differenza di idee e di aspirazioni, hanno invece la pretesa di riscriverla secondo le proprie convenienze ideologiche e immaginando che essa possa avere un senso unitario e obbligato. Le prime, riconoscendo i confitti, tendono a superarli attraverso lo strumento della riconciliazione come atto pubblico. I secondi, con la pretesa di abolirli nel presente e nella memoria, inseguono l’uniformità imposta sotto forma di verità ufficiale.
Naturalmente, iniziative di alto significato simbolico e culturale come quella odierna organizzata a Trieste, non sono esenti da rischi. Quando si esce dal perimetro della storiografia accademica per entrare in quello della storia celebrativa bisogna infatti evitare che la retorica e l’ufficialità dei discorsi, per quando animati da una sincera vocazione pedagogico-civile, si mangino la realtà vivente della politica. Ciò significa, per fare un solo esempio, che denunciare le tossine del nazionalismo novecentesco e i rischi di un suo ritorno di fiamma, sotto la formula genericamente equivoca del “sovranismo”, non implica che la nazione e il senso di appartenenza che lo sostiene vadano considerati – come alcuni tendono a pensare – un pericoloso anacronismo. La nazione è ancora oggi un concetto politico vitale e uno spazio simbolico di costruzione di un sé sociale senza il quale si rischia lo sradicamento su base planetaria: non l’umanità unità, ma l’umanità frammentata e in perenne conflitto.
Lo stesso dicasi per l’idea che i confini tra Paesi, anche quando appaiono o vengono dichiarati naturali, siano al dunque una mera convenzione culturale, un artificio politico-legale che nella prospettiva di un mondo sempre più unificato e integrato dovremo un giorno superare. Non foss’altro per evitare che si ripetano incomprensioni mortali e scoppio d’odio come quelli che hanno tragicamente segnato, nel corso del Novecento, il confine orientale dell’Italia. Ma anche in questo caso bisognerebbe ricordare come le barriere e i limiti che definiscono uno spazio politico, che è sempre anche uno spazio storico-culturale, sono finzioni vitali e necessarie per qualunque comunità organizzata: ci si divide anche per meglio conoscersi, come accade appunto nelle zone di confine, che per definizione sono zone di scambi, mescolanze e incroci ma a partire da una qualche identità dichiarata o rivendicata. Laddove l’identità, presa sul serio, implica il riconoscimento e l’accettazione di chi ne dichiara o possiede una diversa. Il nostro problema odierno, se davvero pensiamo di aver appreso qualcosa dalla storia, è far convivere le diversità (a partire da quelle collettive) non annullarle: negli Stati e tra Stati.
Tutto ciò, come si comprende facilmente, si riflette sul futuro dell’Unione europea – che è il tema politico sullo sfondo dell’incontro odierno tra Mattarella e Pahor e, simbolicamente, tra i rispettivi popoli. L’idea di alcuni è che la costruzione di un’identità europea radicata a livello popolare possa realizzarsi solo attraverso il superamento delle culture o appartenenze nazionali che nel passato del continente non sono state altro che cause di divisioni e guerre. Laddove è vero esattamente il contrario: l’Europa può rappresentare uno spazio comune e condiviso – sul piano culturale, politico e simbolico – solo le nazioni storiche che ne sono il fondamento materiale e simbolico potranno mantenere la loro autonomia, indipendenza e riconoscibilità. L’unità nella differenza, la solidarietà nel rispetto della storia propria e altrui, la fratellanza sapendo che tra fratelli, in certe circostanze, si possono anche consumare inimicizie mortali, così come si possono realizzare grandi slanci passionali e disinteressati: è il messaggio che oggi, da Trieste, Italia e Slovenia lanciano all’intera Europa.
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