Alessandro Campi
Alessandro Campi

Leader a confronto/ L’Italia che vuole ripartire e i soliti affari di famiglia

di Alessandro Campi
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Venerdì 14 Ottobre 2022, 00:02

Si parla spesso della “centralità del Parlamento” senza capire cosa si intenda con quest’espressione. Bene, ieri abbiamo avuto una prova concreta di come funziona, nella sua piena autonomia, l’istituzione parlamentare. E quali siano i meccanismi che, al di là delle rigide appartenenze di partito, ne regolano la vita interna.
Forza Italia, mal condotta e mal ispirata da Licia Ronzulli, ha provato ad affossare l’elezione di Ignazio La Russa candidato alla presidenza del Senato di Fratelli d’Italia. Si voleva mandare agli alleati e segnatamente alla Presidente del Consiglio un pectore un duro segnale in vista della costituzione del governo. Qualcosa del tipo: se non ci date quel che chiediamo (che poi sarebbe soprattutto un dicastero di peso per la medesima Ronzulli) vi terremo sotto scacco.

Ma ecco la sorpresa. Nonostante la plateale scelta dei forzisti di non partecipare al voto (con l’eccezione di Silvio Berlusconi e dell’ex Presidente del Senato Casellati), La Russa è stato egualmente eletto al primo colpo. Ha ottenuto il voto di una ventina di senatori formalmente appartenenti all’opposizione. Uno smacco. Della serie, si potrebbe dire, dilettanti (forzisti) allo sbaraglio. Ci si è subito chiesti da dove siano esattamente venuti quei voti. Dal Terzo Polo? Ma ne sono arrivati più di quanti quest’ultimo ne abbia. Dai grillini? Strano. 
Dal Pd? Quasi incredibile. Come al solito, non lo sapremo mai. Tutti, quando il voto è segreto, possono legittimamente sospettare di tutti. La vera domanda tuttavia è un’altra. Come si è riusciti a raggranellare un pacchetto così consistente di voti, grazie ai quali si è neutralizzato il tentativo dei pretoriani berlusconiani di mettere Giorgia Meloni nell’angolo anzitempo?

C’è stata ovviamente una regia, l’operazione è stata preparata per tempo. Quando si è capito, dopo il vertice burrascoso dell’altra sera tra il Cavaliere e la leader di Fratelli Italia, che la maggioranza rischiava di sfilacciarsi alla prima prova, si è provveduto ad organizzare un soccorso parlamentare grazie a singoli esponenti dell’opposizione a loro volta interessati a mandare un segnale: di benevola attenzione alla stessa Meloni (in cambio di cosa lo vedremo nei prossimi giorni, quando si nomineranno i presidenti di commissione), di sfida nei confronti di Forza Italia o di quel che politicamente ne resta. Il Parlamento è sovrano, i parlamentari sono liberi di fare quel che vogliono, e guai per chi ieri ha sottovalutato questa banale verità.

Dopo di che resta il dato politico. Il centrodestra parte, non male, malissimo. Hanno dunque ragione i suoi avversari a pensare che imploderà in pochi mesi? Berlusconi farà con Meloni quel che Bossi fece con lui nel 1994? Pochi mesi di governo insieme per poi mandare tutto all’aria. A quel punto, c’è da giurarci, qualcuno a sinistra potrebbe arrivare a considerare il Cavaliere una costola del socialismo, oltre a elevarlo al rango di padre della patria: il centrodestra affossato dal suo fondatore, quale capriola della storia! La verità è che mandare in pezzi la maggioranza parlamentare scelta, bene o male, dagli italiani potrebbe comportare per Forza Italia un prezzo altissimo da pagare, sino ad accelerarne la fine.

Capito questo è probabile una rapida correzione di rotta e un mesto ritorno nei ranghi. Ieri l’imbarazzo di un maggiorente del partito come Antonio Tajani, dinnanzi a una mossa così politicamente maldestra, era davvero palese. Quanto conta ancora Berlusconi? Quale strategia politica ha in testa, ammesso ne abbia una? Si vuole dare un governo al Paese o si stanno perseguendo ambizioni personali e i soliti affari di famiglia?

Domande maliziose che rischiano di far passare in secondo piano quanto di importante è accaduto ieri, a conclusione di una giornata per certi versi storica. In mattinata, dopo l’appassionato intervento di Liliana Segre nei panni di senatrice anziana, ci si era sbizzarriti sul sinistro simbolismo rappresentato dal passaggio di consegne - peraltro nell’imminenza del centenario della marcia su Roma - tra una scampata all’Olocausto e uno storico esponente della destra nostalgica. Secondo alcuni una tragica beffa politica, quasi una provocazione storica, il segno di un’Italia irredimibile e senza memoria.

Ma le cose sono andate diversamente. La Russa dopo la sua elezione ha fatto un discorso semplice ma intenso. Non ha rivendicato politicamente (e polemicamente) una memoria alternativa a quella rappresentata dalla Segre. S’è posto in continuità con quest’ultima nel nome di una comune appartenenza all’Italia e alla sua storia. Ha citato Napolitano, Pertini e Violante. Ha ricordato il 25 aprile tra le ricorrenze civili della Repubblica che tutti debbono festeggiare. Ha biasimato la violenza contro i minori e le donne. Ha reso omaggio al coraggio dei resistenti ucraini contro Putin. Ha ricordato il diritto di tutti ad avere un lavoro decoroso e ben retribuito. Ha reso un tributo agli eroi della lotta alla mafia e ai soldati italiani caduti nelle missioni all’estero. Ha giurato che sarà imparziale e al servizio dell’istituzione.

C’era il rischio, forse il timore, che in questo suo primo discorso ufficiale si rimestassero, in segno di rivincita postuma, i temi cari a una certa destra mai conciliatasi con lo spirito della Repubblica antifascista: il solito refrain della pacificazione tra italiani, l’omaggio alla buona fede dei ragazzi di Salò, la polemica contro il carattere eccessivamente divisivo della festa della Liberazione. Nulla del genere.
La Russa ha ricordato le sue origini politiche e le sue radici famigliari, ma come semplice dato biografico. Le uniche concessioni all’impegno politico di una vita sono state il richiamo alla figura di Pinuccio Tatarella, gran tessitore di alleanze politiche trasversali ed esponente di una destra autenticamente post-fascista quando ancora da quelle parti ci si illanguidiva col ricordo di Mussolini, e il ricordo - sincero, commosso, doveroso - alle figure di Sergio Ramelli, per la destra, e di Fausto e Iaio – per la sinistra, giovani vittime della violenza politica nella cupa stagione degli anni ‘70 in Italia.

Unità nella differenza, un Paese che prova a guardare avanti essendo rimasto troppo a lungo prigioniero dei fantasmi del passato. Un buon inizio, dal punto di vista istituzionale e della dialettica democratica. Per la maggioranza di centrodestra, invece, un cammino decisamente in salita. Ma Giorgia Meloni questo lo sapeva già.

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