Alessandro Campi
Alessandro Campi

La lezione libica/ Gli equilibri mutevoli di un sistema di potere

di Alessandro Campi
5 Minuti di Lettura
Domenica 25 Giugno 2023, 21:44 - Ultimo aggiornamento: 26 Giugno, 23:47

Nei confronti di Putin probabilmente s’è fatto lo stesso errore compiuto nel recente passato da molti analisti con Gheddafi.
Si credeva che quest’ultimo fosse il capo assoluto e incontrastato della Libia, in grado di decidere – da solo – qualunque cosa su qualsivoglia tema. Protetto dalle sue amazzoni, le uniche di cui si fidava, il rais teneva nelle sue mani un potere esclusivo e assoluto, oltre a godere di un sostegno popolare immenso e a prova di opposizione. 
Scoppiata la guerra civile nel febbraio 2011, dopo otto mesi finì nel modo che sappiamo: catturato nell’entroterra di Sirte, venne torturato e ucciso dai suoi fedelissimi di un tempo nel frattempo divenuti membri di milizie armate e gruppi ribelli.


Si scoprì in quei tragici mesi che dalla sua ascesa al potere nel 1969, fino alla morte, Gheddafi più che un leader politico sul modello dei grandi dittatori novecenteschi che scimmiottava in chiave di revanche anti-colonialista, in realtà era stato – al di là dei proclami ideologici rivoluzionari, dei pomposi titoli onorifici auto-attribuiti e di un culto della personalità da lui alimentato in forme persino grottesche – il garante di un complesso equilibrio di potere tra clan e tribù con le quali, appartenendo a sua volta a una di queste tribù, aveva stretto alleanze e si era spartito il potere.

Dietro la Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista, della quale si presentava come il fondatore e la guida spirituale suprema, c’era dunque un paese storicamente diviso in etnie, bande, fazioni, potentati territoriali e confraternite religiose cui dopo il colpo di stato anti-monarchico si erano aggiunti, rendendo sempre più complessa la sua opera di mediazione, nuovi gruppi di potere: dall’oligarchia militare fedele al Colonnello sin dai tempi dell’insurrezione contro re Idris agli affaristi-mediatori di Stato legati al business del petrolio, dai servizi segreti spesso impegnati nel sostegno al terrorismo internazionale ad una “nuova classe” di burocrati, tecnici e mandarini impegnati ad assecondare le ambizioni di potenza in Africa della Libia nazionalista.


Il venir meno di quest’equilibrio – fatto di concessioni e privilegi alle tribù alleate o amiche, di repressione poliziesca nei confronti dei dissidenti e critici (a partire dalla componente religiosa islamica) e di un crescente potere concesso ai membri della propria smisurata e famelica famiglia – ha segnato la fine violenta di Gheddafi, rovesciato dal suo stesso esercito nel frattempo spaccatosi in diverse fazioni, e gettato la Libia in una situazione di caos che perdura ormai da oltre un decennio.


Di Putin, alla luce delle rocambolesche e per molti versi incomprensibili vicende degli ultimi giorni, forse si può dire la stessa cosa: è il garante e custode di un sistema di potere che scricchiola sempre di più e del quale potrebbe finire egli stesso vittima.
Per anni lo si è descritto come il fondatore di una ideologia specifica, come il fautore di un modello di democrazia sovrana in bilico tra tradizionalismo religioso e anti-liberalismo politico, come un presidente-dittatore in grado di perpetuarsi al potere incurante di qualunque dissenso. Mentre invece la sua forza derivava probabilmente dal fatto di essersi messo a capo, con grande abilità tattica e indubbia spregiudicatezza, di una vasta rete di interessi economico-finanziari e di un complesso sistema di potere politico-militare.
Come la Libia, anche la Russia è un Paese che trae la sua grande ricchezza dallo sfruttamento e dalla vendita di materie prime controllate da una ristretta oligarchia di magnati legati a doppio filo con il potere politico e con gli apparati della Stato nelle sue diverse articolazioni.

La verticale russa del potere, se da un lato ha Putin come riferimento simbolico al vertice e come referente all’apparenza unico, dall’altro è in realtà composta da una molteplicità di strutture e centri di comando tra di loro al tempo stesso alleati e in competizione (per quanto non alla luce del sole).


Una poliarchia, dunque, più che una monocrazia. Rappresentata al massimo grado da Putin e comprendente magnati arricchitisi negli anni con le concessioni statali, grandi esponenti della burocrazia pubblica, i capi delle varie forze armate e quelli delle diverse agenzie di sicurezza, i potentissimi governatori locali, rappresentanti col colletto blu di organizzazioni criminali transnazionali, nonché i comandanti di milizie e gruppi paramilitari utilizzati dal governo russo come pretoriani e forza d’urto in giro per il mondo.


Tra questi ultimi c’è appunto Evgenij Prigozhin, il capo dei mercenari della compagnia Wagner. La cui minaccia di «marciare su Mosca» in aperta sfida nei confronti di Putin, un colpo di stato rientrato per motivi al momento ancora oscuri, è stata letta da molti come la prova che quest’ultimo è divenuto un problema anche per molti di coloro che con lui, da oltre un ventennio, hanno condiviso potere e affari.
Per i suoi sodali di un tempo l’attacco all’Ucraina si è risolto in uno smacco evidente, politico e militare, oltre ad aver prodotto l’isolamento internazionale della Russia. Non c’è sentimento di orgoglio patriottico che possa bilanciare una realtà talmente cruda da giustificare la rottura del patto di spartizione sul quale si è retto il sistema di potere incarnato in tutti questi anni da Putin. Un potere assoluto all’apparenza, ma frutto anche in questo caso – come nella Libia di Gheddafi – di un complesso sistema di alleanze interne.


Alleanze talmente giocate su dinamiche di potere ambigue, trasversali e opache da rendere persino plausibile l’idea che quella di Prigozhin, come qualcuno sostiene, sia stata in realtà una messa in scena concordata con Putin per consentirgli di eliminare dai vertici politico-militare coloro che, da amici o complici che erano, sono nel frattempo diventati suoi nemici o rivali.


In realtà, dopo il sollevamento mancato della Wagner e la fuga in Bielorussia di Prigozhin, l’indebolimento di Putin è evidente e la sua caduta appare solo questione di tempo. Sembra venuta meno la sua capacità di mantenere in equilibrio i molti gruppi di potere che l’hanno sin qui sostenuto. Resta da capire solo se la sua uscita di scena – desiderata ormai dai molti dei suoi stessi alleati e unica condizione, a questo punto, perché il conflitto con l’Ucraina trovi un punto di soluzione – sarà concordata e indolore, oppure brutale e sanguinosa. Se l’esperienza, in casi analoghi, insegna qualcosa, è probabile che si profili per lui il rischio di un finale di partita assai drammatico.

© RIPRODUZIONE RISERVATA