Alessandro Campi
Alessandro Campi

Oltre le nomine/Il pluralismo che occorre nel dibattito del Paese

di Alessandro Campi
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Lunedì 15 Maggio 2023, 00:01 - Ultimo aggiornamento: 22:51

Lottizzatori (dunque brutti e cattivi) sono sempre gli altri. E con questa formula, candidamente cinica, potremmo considerare persino conclusa una polemica – quella sulla volontà della destra attualmente al potere di occupare in modo sistematico qualunque poltrona dipendente dalla politica – che trasuda da ogni poro ipocrisia, moralismo a buon mercato e strumentalità.


Ma giustificare lo spoils system in salsa italica alla luce del proverbiale “così fan tutti”, oltre che larvatamente immorale, è davvero un modo di argomentare semplicistico. Non si tratta infatti di prendere atto della legittimità e correttezza formale di una pratica di potere in sé persino scontata, dal momento che in democrazia chi vince prende, se non tutto, certamente molto. E nessuno, che ci risulti, si è mai sottratto sinora a questa regola: a partire da coloro che la criticano oggi avendola applicata sino all’altro ieri.


Si tratta di capire, innanzitutto, se quest’occupazione politicamente orientata in effetti si stia realizzando per come viene raccontata: in una chiave persino personalistica, con Giorgia Meloni, più che la sua stessa maggioranza, nelle vesti di una implacabile accaparratrice di incarichi per i suoi fedelissimi anche se di dubbia competenza. E poi di ragionare sul fatto se dietro le nomine ci sia, oltre una scelta brutale in termini di potere, frutto magari di una famelicità atavica o di un semplice desiderio di rivincita personale, una qualche intenzionalità politico-strategica che le giustifichi sul piano degli obiettivi e delle realizzazioni.


Il primo punto si presta ad essere ben discusso guardando alle personalità che l’esecutivo, nelle settimane scorse, ha scelto per guidare alcune delle più importanti aziende a partecipazione-controllo pubblico. La si è descritta come un’operazione condotta con implacabile metodicità, nel segno della vicinanza dei prescelti ai partiti di governo e ai loro esponenti più in vista, e finalizzata a creare un blocco di potere strutturalmente organico alla maggioranza uscita vincitrice dalle elezioni dello scorso 25 settembre.


Un’interpretazione dei fatti al tempo stesso falsa e grossolana, che non tiene conto nemmeno lontanamente di come oggi – in una realtà come quella italiana, ma lo stesso potrebbe dirsi per molte democrazie – si articolano i rapporti tra, da un lato, la sfera politico-istituzionale e di governo e, dall’altro, quel vasto mondo che include gruppi di interesse e corporazioni professionali, tecno-strutture burocratiche nazionali ed europee, grandi aziende private e alto management pubblico. 


Per capirci: davvero si crede di poter scegliere il presidente o l’amministratore delegato di un player industriale globale a guida pubblica, mettiamo Eni o Enel, secondo criteri di mera affiliazione o fedeltà politica, come se si trattasse di scegliere un segretario regionale del proprio partito? Infatti non è successo. Quello che si è realizzato, con le nomine che abbiamo visto, è stato piuttosto un articolato compromesso tra indirizzo politico-governativo, sfere di competenza manageriale, blocchi organizzati di interesse e apparati tecnico-amministrativi. 
Un compromesso ovviamente ispirato dall’esecutivo, che dovrà ora indirizzarlo secondo i suoi obiettivi strategici e i suoi programmi, ma senza che ciò possa significare togliere autonomia decisionale a realtà produttive, finanziarie e tecnologiche che sono componenti di un sistema competitivo che per funzionare – e ne va il benessere dell’Italia – non può minimamente piegarsi a logiche o interessi di tipo partitico o, peggio, personalistico.

Un conto sono il raccordo funzionale e la leale collaborazione con la politica dei diversi segmenti di tale sistema, tutt’altro è immaginare un loro rapporto di dipendenza dalla politica.

 
E veniamo al secondo punto. Si occupa per occupare o perché occupando si vuole conseguire un qualche obiettivo politico-progettuale? E quale, eventualmente?
Qui cade bene la vicenda della Rai, azienda strutturalmente esposta ad un rapporto più che simbiotico col potere politico del momento. Ed esempio da manuale di uno spoil system condotto dalla destra – per chi lo sta denunciando in queste ore con veemenza – con un duplice scopo: da un lato premiare gli amici degli amici e spartirsi il bottino in una logica di accaparramento brutale; dall’altro, provare a realizzare, peraltro coi soldi di tutti gli italiani, un megafono propagandistico, nemmeno per l’intero centrodestra, ma direttamente per Giorgia Meloni. 
Si dice polemicamente che la destra vuole la Rai, lasciando alle opposizioni le briciole, soprattutto perché intende costruire una sorta di nuova egemonia simbolica, una mentalità conformistica di massa politicamente orientata, basate però, più che sulla forza delle sue idee e sulle poche e vetuste parole d’ordine di cui essa si alimenta (Dio, patria e famiglia), sulla messa al bando di qualunque voce critica o dissidente. 


I critici implacabili di questo nuovo corso, che si vorrebbe pericolosamente incline all’autoritarismo, non sono nemmeno sfiorati dall’idea che l’obiettivo (e la convenienza, anche politica) della destra al potere – come peraltro ammesso da molti suoi esponenti – sia in questa fase storica piuttosto un altro. Non tanto costruire una nuova (peraltro impossibile nell’era dell’anarchismo digitale) egemonia ideologica nel segno della pedagogia patriottica di Stato, come la sinistra va denunciando con crescente allarmismo (forse riflettendo sugli altri i modelli di costruzione del consenso che ha praticato nella sua storia). Quanto piuttosto mettersi professionalmente alla prova e fare sul serio nella battaglia politico-culturale non avendolo fatto in precedenti stagioni, come quelle dei trionfi berlusconiani alle urne, mai accompagnati da una seria elaborazione progettuale e da una rigorosa definizione in pubblico del proprio perimetro valoriale e ideale, del proprio immaginario storico e sociale.
Il tutto – e questa sarebbe la verità novità della nuova stagione di lottizzazione che s’annuncia, benefica per il Paese dopo gli eccessi di conformismo unilaterale del recente passato – in una logica di riequilibrio tra le diverse culture e sensibilità politiche, dunque di confronto pluralistico dopo gli eccessi di conformismo unilaterale del recente passato, che in Rai, la principale industria culturale della nazione, e in generale nel sistema mediatico-giornalistico, non sempre ha rappresentato la regola.


Su questa anomalia la destra ha costruito per molti anni una retorica vittimistica, basata tuttavia su una condizione reale: l’asimmetria tra gli umori dominante nel Paese e la loro distorta o marginale rappresentazione pubblica. Con i ruoli che essa si appresta legittimamente a ricoprire in segmenti importanti della macchina del consenso e della struttura del potere culturale italiano non avrà più alibi. 

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