Giuseppe Roma
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La forza del Centro che occorre al Pnrr

di Giuseppe Roma
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Giovedì 2 Settembre 2021, 00:10

Le prossime settimane risulteranno decisive per determinare concrete ricadute del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) sui processi di sviluppo del nostro Paese. Gran parte dei ministeri, infatti, stanno approntando i bandi per le diverse azioni che vedranno impegnate Regioni, Comuni e imprese. L’avvio effettivo dei progetti è previsto per il primo semestre del 2022. L’organizzazione amministrativa procede rafforzando vertici e organici, indicando tempi e fasi, preparando le strutture necessarie a rendicontare le spese. 

Allo stato, tuttavia, non pochi interventi a domanda diffusa non hanno chiaramente definito obiettivi specifici e risultati attesi. In particolare, manca un inquadramento di contesto in grado di modulare le azioni sulla base delle notevoli differenze territoriali esistenti in Italia. Molti dei validi economisti al governo, a partire dal premier, Mario Draghi, avranno memoria dell’unico tentativo organico di programmazione economica nella storia repubblicana, quella che ebbe come protagonista Giorgio Ruffolo alla fine degli anni ’60, la cui lungimiranza non mancò di affiancare al Piano anche le sue Proiezioni Territoriali. 

Bene la riserva del 40% degli investimenti da collocare al Sud, ma forse sarebbe utile una maggiore aderenza all’attuale struttura del Paese. La geografia produttiva nazionale ha una tradizione dualistica per il notevole differenziale del Mezzogiorno con il resto d’Italia, ma negli ultimi vent’anni si è ulteriormente articolata, ponendo nuovi problemi che solo fra i grandi quotidiani nazionali, ha raccontato con puntualità e accuratezza scientifica.

L’obiettivo fondamentale del Pnrr è di dare una scossa alle economie europee, soprattutto a quelle, come la nostra, caratterizzate da basse dinamiche di crescita. Ma uno dei fattori che incide fortemente sullo sviluppo complessivo è costituito dalle diverse velocità di espansione registrate a livello regionale. Se all’inizio degli anni Duemila aveva ancora senso la tradizionale ripartizione fra Nord, Centro e Sud, oggi il quadro territoriale è decisamente cambiato. 

Come è noto il triangolo Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, anche grazie al sostegno pubblico ottenuto agitando la “questione settentrionale”, ha saputo meglio affrontare, nell’ultimo ventennio, il nuovo contesto competitivo determinato dall’introduzione dell’euro e dall’apertura dei mercati internazionali. Nello stesso periodo il Centro Italia, nonostante le tante penalizzazioni, ha tenuto bene, mentre a cedere quote di pil, oltre al Mezzogiorno, sono state le altre realtà settentrionali fuori dal “triangolo d’oro”.

Esaminando il contributo dei vari territori al valore aggiunto complessivo fra il 2001 (anno d’introduzione dell’euro e degli accordi sul commercio mondiale) e il 2019 (escludendo quindi gli effetti della pandemia) emerge un quadro molto utile alla programmazione nazionale. Il triangolo del Nord (lombardo-veneto-emiliano romagnolo) produceva nel 2001 il 39,2% del valore aggiunto italiano, ed è passato ora al 40,7%. Anche il Centro Italia ha visto aumentare, seppur di poco, il suo contributo al prodotto nazionale dal 21,1% al 21,5%.

Una quota significativa considerando che nelle regioni centrali vive il 19,8% degli italiani. 

A ridurre il peso nella creazione di valore, oltre al Mezzogiorno passato da una quota del 23,9% del 2001 all’attuale 22,3%, ci sono anche le altre regioni del Nord che scendono dal 15,8% all’attuale 15,5% del totale nazionale. In particolare, nei quasi due decenni considerati, Lombardia, Emilia-Romagna e il Centro Italia sono cresciuti più della media nazionale, mentre il Veneto, le restanti regioni settentrionali e il Mezzogiorno si sono mantenuti al di sotto.
I grandi investimenti pubblici non dovrebbero ignorare il potenziale esistente nelle diverse aree del Paese e strutturare il piano in modo il più possibile armonico. Battendo solo e sempre su un unico tasto è difficile che si possa realizzare una buona partitura. Per riportare il sistema Italia a espandersi del più 2-3% annuo la sfida decisiva si gioca a Roma e nel Centro Italia. 
Innanzitutto perché, come dimostrano i dati, le regioni centrali hanno saputo adeguarsi al nuovo contesto competitivo e crescere più della media, nonostante siano state penalizzate e abbiano subito processi di delocalizzazione a favore di altre aree del Paese. Basti ricordare le alterne vicende di Malpensa e degli hub aeroportuali per depotenziare Fiumicino e mettere in ginocchio l’Alitalia. O al risiko bancario che ha privato Roma di un grande riferimento finanziario e che, con la ristrutturazione del Monte dei Paschi, sta per privare il Centro-Sud dell’ultimo, seppur debole, riferimento nazionale nel settore del credito. 

Eppure le regioni centrali dispongono di uno straordinario capitale di risorse indispensabili a realizzare le missioni previste dall’Europa per offrire più opportunità alle nuove generazioni. Ricerca e formazione vedono localizzate in Centro Italia 16 delle 24 istituzioni di ricerca nazionali (Cnr, Enea, Infn…), 19 università statali oltre a quelle private e le decine di sedi di università straniere. Altrettanto vale per il digitale e la sostenibilità ambientale, con la presenza delle più importanti aziende informatiche e di telecomunicazioni (Almaviva, Tim) o energetiche e di trasporto (Enel, FS) impegnate nella battaglia sul clima. 

Infine, il ruolo centrale delle industrie culturali e creative non può fare a meno dello schiacciante primato di regioni come il Lazio, l’Umbra o la Toscana. Nell’Italia centrale è normalmente presente (dati prima della pandemia) il 63% dei visitatori di tutti i musei e siti italiani statali. E si potrebbe continuare.

Nello spirito manageriale che sta improntando la gestione del Pnrr, cogliendo anche l’indicazione europea dell’indispensabile apporto della partecipazione e dei partenariati, fra cabine di regia, segretariati, tavoli, unità di missione uno spazio andrebbe riservato all’analisi di impatto territoriale, con un nucleo anche piccolo, ma specializzato nella lettura dei gradi mutamenti geografici avvenuti nel nostro Paese.
 

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