Alessandro Campi
Alessandro Campi

Voti emozionali/ La parabola dei leader di partiti senza storia

di Alessandro Campi
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Sabato 8 Maggio 2021, 00:10

Dopo il tonfo madrileno, Pablo Iglesias ha deciso di lasciare la politica attiva. Doveva cambiare la Spagna dei vecchi partiti: lo hanno sconfitto i Popolari di sempre essendo nel frattempo andato al governo con i Socialisti di sempre. Ci si chiede come possa ancora esistere Podemos senza più il suo fondatore, ideologo, capo carismatico e uomo-immagine. Sembra la fine di un sogno.

«Oggi in Spagna, domani in Italia», si diceva ai tempi eroici. Il prossimo a ritirarsi dalle scene potrebbe forse essere Matteo Renzi? In effetti, che senso ha essere il capo indiscusso di una “cosa” che vale il 2% essendo stato il capo di un partito che valeva il 40% e avendo per di più compreso che a sinistra nessuno ormai lo ama? Meglio, a questo punto, un futuro da conferenziere in giro per il mondo. 

E chissà che anche Grillo, che anche lui ambiva a cambiare l’Italia dei vecchi partiti salvo doversi alleare con quel Pd che voleva distruggere, non stia meditando di tornare a fare il comico, sempre che abbia mai smesso. Appena tre anni fa il suo era il primo partito d’Italia, adesso è un esercito in rotta, senza capi e con truppe decimate. La fine di un altro sogno.
A proposito, per spostarci nel resto d’Europa, dove sono finiti e cosa fanno oggi David Cameron, l’uomo che doveva rifondare il conservatorismo europeo, Alexis Tsipras, (...)
(...) l’uomo che doveva rifondare la sinistra radicale europea, Yanis Varoufakis, che doveva invece rifondare la sinistra radicale mondiale, o Annegret Kramp-Karrenbauer, l’astro nascente (e subito calante) della Germania post-Merkel? 

Per restare in Germania, da qualche settimana non si parla che del gran futuro che attende Annalena Baerbock – donna, giovane e verde – ma durerà, sono attese ben riposte, o si rivelerà l’ennesimo fuoco fatuo politico? 

Le leadership politiche contemporanee, ahimé soprattutto quelle democratiche, tendono ormai ad essere così: sfolgoranti ed effimere, mediaticamente eclatanti ma spesso politicamente passeggere. Un giro di giostra e poi a casa, anche quando si tratta di grossi calibri: Sarkozy, Trump, forse persino Macron. Spesso sono i media, prima degli elettori, a farle nascere e ad imporle. Ma anche quando emergono con forza propria, con l’ambizione di fare grandi cose e di cambiare tutto, finiscono sovente in modo imprevisto e repentino, senza gloria, lasciando dietro di sé rovine politiche, malumori personali e cattivi ricordi collettivi. 

Da un lato, sono le regole ormai spietate della politica-spettacolo: si sta in scena da protagonisti finché il pubblico non si stanca, poi avanti il prossimo, solo perché considerato più seducente e convincente. Non è facile, per un politico, governare una macchina della comunicazione che prima ti osanna, ti blandisce e ti fa sentire imbattibile, per poi metterti da parte avendoti nel frattempo spremuto a dovere.

Dall’altro, gli elettori, consunte le ideologie e le culture politiche tradizionali, sono divenuti sempre più umorali e fluttuanti, pronti dunque a cambiare idea anche radicalmente: dal voto d’opinione siamo ormai passati al voto d’emozione, ponderato il primo, per definizione volatile il secondo. Difficile per i leader durare nel tempo in un mondo fattosi frenetico, che tende a consumare ogni cosa – incluso il consenso politico e chi momentaneamente lo cavalca – con grande velocità.

Salvini, sta per caso leggendo questo giornale?

Ma dobbiamo considerare, accanto a quelli esterni, anche alcuni fattori interni. Ad esempio, l’incapacità degli stessi leader – oggi sempre più dediti al culto di sé che alla difesa di chissà quale nobile battaglia, ma ormai siamo tutti narcisisti senza grandi cause a cui votarci – a ben gestire la propria popolarità. Presi dall’impazienza d’apparire, presenziare, comunicare e piacere finiscono per stancare il prossimo e per bruciarsi da soli. Nemmeno li sfiora l’idea, familiare ai capi di un tempo, che un’assenza calcolata dalla scena, un silenzio anche prolungato, in politica possono valere più di mille inutili dichiarazioni alla stampa o di continue comparsate televisive. Accade così che capaci solo di vincere, abituati al successo e a sentirsi dare sempre ragione, finiscono per deprimersi alla prima sconfitta, come se in politica non fosse normale passare dagli allori alle disfatte.

S’è persa insomma quella capacità di resistere alle avversità e ai momenti difficili, magari in solitudine, che per i leader (veri) di un tempo era anche un modo per rafforzare il proprio carattere e prepararsi al meglio per le battaglie di domani. Probabilmente dipende dal fatto che molte leadership politiche nascono oggi fuori dalla politica e dai partiti tradizionali, attraverso percorsi occasionali, personalistici, eccentrici o semplicemente fortunosi. Non avendo dietro di sé una storia e una struttura consolidata, difficile avere un futuro stabile.
Iglesias, ad esempio, era un professore universitario che ha immaginato Podemos come un esperimento di ingegneria sociale a misura del suo immaginario post-moderno: ha impostato la sua battaglia politica sul modello della lotta tra Bene e Male tipico delle serie televisive in stile fantasy di cui era un gran divoratore. Ha così costruito un’epica e una narrativa di sé molto sintoniche col mondo giovanile, ma non un consenso sociale stabile o un progetto credibile di rinnovamento istituzionale. Una grande cavalcata durata nemmeno dieci anni e adesso tanti saluti.

Come un tranquillo professore è anche Giuseppe Conte: prima catapultato a Palazzo Chigi per governare un Paese che ne ignorava il nome, ora prossimo a guidare un partito nel quale non ha mai militato. Anche lui espressione di un esperimento, sobillare i cittadini attraverso la Rete, e di un azzardo propagandistico: l’Uomo Qualunque che si prende il Palazzo per conto del Popolo avendo come unico titolo l’Onestà. Per tre anni gli è andata bene, avendo praticato con abilità l’antica arte del barcamenarsi. Vedremo adesso che ci sarà da battagliare e prendere posizione senza ambiguità. 

In questa dinamica altalenante della leadership c’è comunque un lato positivo: l’idea, indicativa anche di un cambiamento del costume e della mentalità, che la politica possa e debba essere considerata un servizio – temporaneo, anche se non effimero e occasionale – verso la collettività, non un vitalizio. Se si vuole anche una professione, nel senso che richiede pur sempre una competenza e una sensibilità specifiche, ma non assoluta, esclusiva e permanente. Tra stare in politica per una breve stagione, come accade oggi, e starci per una vita intera, come accadeva un tempo, chissà, forse c’è una ragionevole via di mezzo. 
 

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