Alberto Brambilla
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Assalto alla diligenza/ L’insensata euforia di politici e sindacati

di Alberto Brambilla
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Mercoledì 22 Dicembre 2021, 00:00

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che prevede finanziamenti all’Italia per quasi 200 miliardi di euro, di cui circa 125 in prestiti e 70 a fondo perduto oltre a 30 miliardi di Fondo supplementare nazionale per finanziare interventi non previsti, ha creato un clima di euforia, forse eccessivo e troppo ottimistico nella politica e tra gli operatori economici. 

La vigorosa ripresa 2021, ormai per buona parte consolidata nonostante i problemi pandemici che condizioneranno negativamente la coda di dicembre, e le prospettive di crescita intorno al 4,3% del Pil per il 2022, hanno concretizzato l’euforia con immediata richiesta di interventi per alleggerire le bollette energetiche, oltre i 5 miliardi già stanziati, aumentare gli ammortizzatori sociali e prevedere altri bonus (divorziati e separati è l’ultima frontiera di Salvini), la rottamazione delle cartelle esattoriali cioè il solito condono mascherato richiesto da quella parte di politica che contemporaneamente vorrebbe anche una riduzione delle tasse; persiste il mito pagano della botte piena e della moglie ubriaca o quello più religioso della moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Proviamo a mettere qualche punto fermo a questa euforia.
a) Andando tutto bene, ma proprio tutto, alla fine del 2022 saremo forse allo stesso livello di Pil del 2019.
Quindi un po’ sotto il livello del 2008 ma con un debito pubblico che dal 132% del Pil è schizzato al 154% rispetto al 99,8% di allora, e con oltre 300 miliardi in più da restituire rispetto al 2019.
b) I redditi e i salari crescono poco, anzi negli ultimi trent’anni l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde sono diminuite in termini reali del 2,9%; un risultato che testimonia, semmai ce ne fosse bisogno, il massimo del fallimento dei sindacati e della politica. Tutto questo ovviamente si riflette e ancor più si rifletterà sulle pensioni: salari poveri possono dare solo pensioni povere, è inutile che il sindacato continui a chiedere aumenti delle pensioni, farebbe meglio a far crescere i salari. Ma ci arriveremo tra poco.
c) Se siamo il fanalino di coda per salari e redditi lo siamo anche per l’occupazione: ultimi in tutte le classifiche per tasso di occupazione complessivo, femminile e dei giovani; appaiati alla Grecia, distanti 10 punti dalla media Ue e a un abisso dai Paesi del centro e nord Europa. In Germania su 83 milioni di abitanti lavorano in 40 milioni; in Francia, che ha una popolazione numericamente simile a quella italiana, i lavoratori sono 34 milioni; da noi su 36,5 milioni di cittadini in età di lavoro solo circa 23 milioni lavorano effettivamente. Come si fa a mantenere il welfare italiano, che è uno dei più costosi tra i Paesi avanzati (pesa per il 56% sull’intera spesa pubblica, interessi sul debito compresi), se lavora soltanto poco più di un terzo?
d) Ultimi siamo anche per incremento del tasso di produttività e arretrati di almeno 30 anni quanto a organizzazione del lavoro; nel 1990 un muratore con 60 anni e più andava sui ponteggi e oggi pure: altro fallimento sindacale. 

Alla luce di queste considerazioni, c’è ancora da essere euforici? Quali sono le azioni messe in campo per diminuire il debito, aumentare i redditi, l’occupazione, la produttività e in una parola la crescita oltre il 2023? Hanno capito i politici e le parti sociali che siamo alla fine di un ciclo e all’inizio di un nuovo periodo che ci accompagnerà fino al 2050, caratterizzato da una profonda transizione demografica - peraltro, ormai quasi tutta scritta (salvo l’immigrazione) - da una transizione energetica ed ecologica che stravolgerà il nostro modo di consumare, viaggiare, produrre e vivere?

Hanno valutato i rischi dell’inflazione e del tapering che la Bce ha deciso di accelerare? A sentire le proposte dei sindacati, di una parte della politica e del ministro del Lavoro, pare di no: sembra di essere nel secolo scorso.

Pensioni a 62 anni e 20 di contributi, cassa integrazione anche per le aziende “morte”, più mesi di Naspi e meno contributi (un’altra moltiplicazione di pani e pesci), zero politiche attive, più assistenza. 

Inoltre, si sciopera perché Cgil e Uil vorrebbero ridurre le tasse a quelli che dichiarano redditi fino a 15 mila euro (ben il 44% dell’intera popolazione), che non pagano un euro di Irpef e sono mantenuti dal resto della popolazione. Ma quello che è grave è assegnare i sussidi (siano essi ammortizzatori sociali o reddito di cittadinanza) e poi lasciare totalmente soli i lavoratori e le persone in difficoltà. 

Nessun progetto di banca dati, di monitoraggio e controllo, di legare le prestazioni a corsi obbligatori per recuperare competenze per trovare un lavoro e nel contempo obbligare tutti i beneficiari a dedicare qualche giorno ogni settimana a lavori di utilità per la propria comunità. E per quelli, tanti, che hanno problemi (gli inoccupabili), prevedere la presa in carico obbligatoria da parte dei servizi sociali per risolvere le dipendenze o le patologie e, se non c’è collaborazione, chiudere tutti i sussidi, indicando i soggetti renitenti nella banca dati dell’assistenza (ancora tutta da fare in Italia, mentre c’è e funziona bene in non pochi Paesi). 

Ma soprattutto occorre iniziare dalla terza media a insegnare educazione civica, finanziaria, previdenziale e cominciare a spiegare che per vivere bisogna lavorare (ti guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte) che ormai non si spiega più neanche in chiesa. È tutto solidarietà, un volemose bene, un dare a tutti perché nessuno resti indietro; poi per finanziare queste spese si dimentica il merito e si prendono i soldi un po’ qua e un po’ là. 

Se non verranno rimossi i gravi ritardi italiani, quali redditi insufficienti, scarsa occupazione, organizzazione del lavoro vetusta, semplificazione delle norme e politiche attive al posto dell’assistenzialismo sarà difficile che l’euforia si trasformi in sviluppo vero.

Governo e parti sociali devono da subito porsi gli obiettivi economici e sociali del Pnrr, vale a dire incremento dell’occupazione e dei redditi con numeri precisi; sindacati e imprese negozino una nuova organizzazione del lavoro; i ministeri mettano a punto in poche settimane (tanto si conoscono già le necessità) i percorsi scolastici, dei licei professionali in primis per favorire l’occupazione e la impiegabilità delle persone. 

Ma soprattutto vanno tagliati tutti i sussidi che in soli 12 anni hanno raddoppiato il numero dei poveri, ridotto quello dei lavoratori e aumentato i costi a carico della collettività del 60%. Senza lo svecchiamento della contrattazione e l’accantonamento di obsolete forme di assistenza, si dubita che esaurito il Pnrr - sempre che si riesca a metterlo a terra - ci sarà ancora euforia.

Alberto Brambilla (Presidente Itinerari Previdenziali)

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