Alberto Brambilla
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Assalto alla manovra/ Quali conti da pagare per sostenere chi non lavora

di Alberto Brambilla
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Martedì 2 Novembre 2021, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 00:06

Con la manovra che si avvicina al Parlamento, il tradizionale “assalto alla diligenza” si accentuerà nonostante si abbia alle spalle l’esperienza della pandemia. Ciò nell’indifferenza totale del pesante debito pubblico accumulato negli ultimi due anni. Vale perciò la pena ricordare che gli impegni assunti dal nostro Paese sono balzati dai 2.409 miliardi (134,7% del Pil) del 2019 ai 2.569 miliardi del 2020 (157,5% del Pil) per toccare - ad agosto - quota 2.734 miliardi contro i 2.696 miliardi di giugno. 

Si tratta di un aumento in soli 8 mesi di 165,1 miliardi che si sommano ai 159,4 miliardi accumulati nel 2020. A questi, nel corso dei prossimi anni, occorrerà aggiungere non meno di altri 30 miliardi di prestiti con garanzia dello Stato (i famosi 30 mila euro) che le tantissime imprese a rischio di chiusura nel terziario e già in difficoltà prima del Covid, non potranno restituire: sono i contributi Covid che, si ricorda, i leader politici del 2020 hanno preteso che lo Stato erogasse “a domanda”, senza alcuna analisi della situazione finanziaria di questi soggetti, una parte dei quali praticamente già falliti.

Nel complesso si tratta di 46.130 euro di debito a testa per tutti gli italiani, bambini compresi, molto più del reddito medio annuo. Pensare che nel biennio 2007-2008 eravamo riusciti a contenere il rapporto debito/Pil lievemente sotto quota 100 (99,8%). E dunque, come se il problema dell’enorme debito pubblico non esistesse, le richieste dei partiti spaziano come da tradizione. Vediamone alcune.

1) La riforma degli ammortizzatori sociali proposta dal ministro Orlando capovolge lo schema virtuoso del Jobs Act di Renzi e Poletti proponendo l’utilizzo delle casse integrazioni per tutti i settori, estendendole anche alle aziende che chiudono o falliscono (la Cig nasce quale integrazione al reddito prevista nelle fasi di ristrutturazione in vista della ripresa delle attività aziendale, non per mantenere posti inesistenti). In pratica, l’estensione in via ordinaria del modello delle casse integrazioni in deroga, utilizzato nel corso della crisi Covid.

La proposta prevede inoltre di ridurre il numero dei contributi versati per accedere alle indennità di disoccupazione (Naspi e Dis-coll), aumentando gli importi e la durata delle prestazioni: il tutto a carico dei contribuenti con oneri che per i primi tre anni sono stimati in circa 8 miliardi, sempre che non si debbano sommarne altri per la ripartenza dei centri per l’impiego.

Non basta. Per alcuni politici ci vorrebbero ancora più soldi: non importa se sommando i lavoratori in Cig, Naspi, quelli che beneficiano del Reddito di cittadinanza piuttosto che degli anticipi pensionistici, fanno oltre 4 milioni di individui che se va bene lavorano in nero o stanno comodamente sul divano lasciandoci penultimi in Europa per tasso di occupazione.

2) Tra le richieste di “correzione” della manovra c’è anche l’estensione strutturale dell’Ape sociale come soluzione alla fine di Quota 100, senza però sistemare in via definitiva i tre difetti della riforma Fornero, tra cui le sfavorevoli regole per quelli che hanno iniziato a lavorare nel 1996, senza introdurre un minimo di flessibilità per tutti i lavoratori.

La stessa parte politica, nel silenzio totale, propone pure una estensione dei lavori gravosi, di cui non v’è traccia in letteratura scientifico medica, che confluirebbero pure loro nell’Ape sociale strutturale per una quantità di mansioni da “giungla pensionistica” che con le riforme degli ultimi 25 anni pensavamo di avere eliminato: se ne ricaverebbe un assegno da 1.500 euro al mese per soggetti che hanno 63 anni di età e 36 di contributi, ovvero Quota 99, che si riduce a Quota 93 perché per alcuni profili dovrebbero bastare 30 anni di contributi.

Ebbene, la platea iniziale di questi lavoratori è stimata in circa 500 mila persone con costi aggiuntivi di qualche miliardo e un pericoloso incremento del rapporto pensionati su attivi.

3) Vi è poi l’Assegno unico universale per i figli: come fu per il Reddito di cittadinanza, che nel 2021 ci costerà forse più di 9 miliardi, anche per l’Auuf è partita la corsa per accedere al beneficio che viene esteso a tutti, disoccupati, incapienti, percettori di Reddito e altre simili provvidenze, senza un minimo di controlli. Si tratta, escludendo i nascituri dal settimo mese di gravidanza in poi, di circa 10 milioni di cittadini fino ai 18 anni che se l’assegno fosse tra 150 e 250 euro al mese, costerebbero tra 18 e 30 miliardi di cui solo una parte recuperabile dagli attuali sussidi, assegni familiari e bonus vari: una cifra comunque enorme.

4) Infine la riforma fiscale voluta a gran voce da quasi tutti i partiti associata a richieste di stralcio delle cartelle esattoriali, anno bianco fiscale, sconti contributivi e altro. L’ipotesi di riduzione della curva Irpef, almeno dei primi due-tre scaglioni potrebbe costare 5-8 miliardi, che però sono ritenuti insufficienti da gran parte della politica.

Euro più euro meno, in tutto fanno circa 25 miliardi che da qualche parte dovranno saltare fuori. A carico di chi finirebbero per essere “addebitati”? A quanti, correttamente, pagano le tasse: è sempre stato così. 

Una situazione che una volta di più esalta la sperequazione fiscale che vede il 79% circa dei cittadini versare solo il 28% di tutta l’Irpef, pur ricevendo tutti i servizi di base (sanità, assistenza e istruzione) per un costo di 170 miliardi pagati dal restante 21% della popolazione.

*Presidente Itinerari Previdenziali
 

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