Mentre il tema dei salari è tornato a dominare la scena a causa della forte inflazione che ne erode il potere d’acquisto, il mercato del lavoro italiano è solcato da due situazioni particolari: la cosiddetta Great Resignation (l’abbandono volontario del lavoro), un fenomeno iniziato nel 2021 negli Stati Uniti e che secondo le stime coinvolge il 75% delle aziende Usa e oltre 47 milioni di americani e che in certa misura si manifesta anche in Italia e, in secondo luogo, le insistenti richieste rivolte al governo da una parte di ridurre il cuneo fiscale e dall’altra di introdurre il salario minimo.
Prima di addentraci nel tema occupazione e “abbandono volontario”, vale la pena di ricordare qualche grandezza: il nostro Paese ha il maggior numero di Neet, giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi di formazione con 3.047.000 di persone (il 25,1% dei giovani italiani); tra i nostri competitor la Spagna si segnala per il 18%, la Francia per il 14% mentre tutti gli altri Paesi sono sotto l’11%; siamo ultimi, subito prima della Grecia che però ha un Pil pari al 70% di quello della Lombardia, per tasso di occupazione globale e distanti 10 punti percentuali dalla media europea; per occupazione femminile (qui le differenze sono di 12 punti rispetto alla media e 20 sul Nord Europa) e giovanile (15-24 anni) con un tasso pari a metà della media Ue e un terzo rispetto ai Paesi del Nord.
Ebbene, nonostante i bassi livelli di occupazione, anche da noi aumentano le dimissioni volontarie, anche se in misura non rilevante e si fa sempre più grave il divario tra i posti di lavoro offerti dal mercato e quanti sono disponibili ad accettarli: l’Osservatorio Anpal Excelsior informa che le imprese avevano necessità di assumere 444.000 dipendenti a maggio, e 1.530.000 entro luglio e al momento c’è difficoltà di reperimento di circa il 40% delle posizioni offerte, con punte del 52% per gli operai specializzati, del 45% per le professioni tecniche ma anche per le posizioni poco qualificate (oltre il 40%). Un male comune? Sì, ma solo in parte: due numeri ci aiutano a capire meglio.
In Francia, che ha i nostri stessi abitanti, i cittadini occupati sono oltre 34 milioni (più del 57% della popolazione); in Germania, con 80 milioni di abitanti, i lavoratori, compresi quelli attivi nei mini-job, sono 41,5 milioni (il 52%); in Italia su una popolazione in età di lavoro di oltre 36 milioni, non arriviamo a 23 milioni (meno del 38%). A ciò bisogna aggiungere che l’Italia è tra i primi Paesi al mondo per spese definite “superflue” (gioco d’azzardo con un costo di 130 miliardi, stupefacenti, alcol, e così via) e che riceve ogni anno dallo Stato 155 miliardi nelle svariate forme di assistenza sociale totalmente esentasse e qualche decina di miliardi in bonus, mancette varie e infine l’assegno unico. Sembra quasi che per una parte degli italiani il lavoro sia un’attività superflua. Del resto, tra assegno unico, reddito di cittadinanza, sussidi vari e lavoretti in nero, in molti sbarcano il lunario magari approfittando di qualche aiutino dal nonno in pensione o dal papà. Poco importa se abbiamo il record europeo di evasione fiscale (tra 150-200 miliardi l’anno) e un debito pubblico tra i primi quattro al mondo in rapporto al Pil.
Ora sindacati e Confindustria chiedono una robusta riduzione del cuneo fiscale e contributivo. E in effetti l’Italia è il Paese con la più alta contribuzione previdenziale (33% a carico dei dipendenti), mentre la Francia sta al 27,5%, la Germania al 18,7%, la Svezia e la Svizzera appena sopra il 20% (quest’ultima considerando il “secondo pilastro” obbligatorio). Tuttavia, tale contribuzione determina per il nostro Paese un tasso di sostituzione (il rapporto tra la prima rata di pensione e l’ultimo reddito) più alto in Europa, pari al 75%, rispetto al 52% della Francia e al 47% della Germania e il 50% della media Ocse. Ebbene, una riduzione generalizzata di 3 punti di contribuzione previdenziale (due a favore del lavoratore e uno per le aziende) diminuirebbe certamente il costo del lavoro, ma peserebbe per circa 18 miliardi l’anno. Dunque, delle due l’una: o l’Italia ogni anno si indebita per altri 18 miliardi o andrà ridotto il tasso di sostituzione: chi glielo spiega ai lavoratori?
Tornando alle grandi dimissioni volontarie, a marzo 2022 sono state circa 15mila, di poco superiori a quelle del marzo 2020 e comunque in linea con quelle registrate subito dopo la conclusione del lockdown, quindi un numero che per il momento non sembra preoccupare.
Infine, notizia utile per qualche riflessione: se davvero l’inflazione a fine anno sarà attorno al 6%, nel 2023 l’adeguamento delle pensioni al 100% per i 13 milioni di pensionati con trattamenti fino a 4 volte il minimo (2.100 euro al mese) e al 90% o al 75% per gli altri 1,3 e 1,7 milioni costerà circa 18 miliardi. E i pensionati saranno probabilmente gli unici a recuperare gli effetti dell’inflazione.
*Presidente Itinerari Previdenziali