Luca Diotallevi
Luca Diotallevi

Ideologismi ottusi/ La logica di comunità che divide il Paese

di Luca Diotallevi
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Mercoledì 7 Settembre 2022, 00:17

Che anche questa campagna elettorale abbia toni accesi e sia animata da una intensa ostilità tra i suoi protagonisti è sotto gli occhi di tutti. Nell’aria risuona qualcosa che aiuta a cogliere profondità ed implicazioni di questa situazione. Quella presente è una situazione che, se si guarda appena un po’ sotto la superficie, non somiglia affatto ai grandi scontri elettorali del nostro passato. Soprattutto chi ha una certa età, sente qualcosa di nuovo nel linguaggio politico diffuso e chi osserva con attenzione nota che non si tratta solo di accenti diversi dal passato.

A destra come a sinistra, quando ci si riferisce al proprio schieramento politico, quando si deve giustificare la fedeltà ad esso, si ricorre ormai costantemente al termine di “comunità” ed al suo lessico. «La mia comunità politica mi ha chiesto»; «mi sono messo a disposizione della mia comunità politica» e via di questo passo.
In Italia il fenomeno si è manifestato in ritardo rispetto a quanto avvenuto in altre democrazie. Il lessico della “comunità” non è affatto solo degli estremisti, non è parlato solo a destra o solo a sinistra, non è solo di “sovranisti” e “populisti”, ma anche del fronte laico e del politically correct.

Che cosa è una “comunità” e dunque anche una “comunità politica”? Innanzitutto la comunità è un “tutto” ed infatti ad essa o si appartiene o non si appartiene. Il trattamento riservato agli appartenenti è ben diverso da quello riservato ai non appartenenti. La comunità è un dio, od un suo surrogato. Prezzo della appartenenza è una fede cieca ed una fedeltà altrettanto cieca. Non necessariamente sincere, ma sicuramente cieche (come aveva chiesto Rousseau).

In secondo luogo, e di conseguenza, fuori dalla mia comunità vi sono solo altre comunità e tra comunità e comunità non vi è termine medio, ma solo un fossato infinito. Attraversare quel fossato è ingiustificabile ed equivale a tradire. Il comandamento è che fuori della tua comunità politica non v’è nulla di buono.
Infine, la comunità impone una fedeltà almeno nominalmente incondizionata: discutere la comunità è già tradirla. La comunità politica non esige solo la condivisione di un programma contingente, anzi, quello può anche non esserci. La comunità politica esige che tu non manifesti né ragioni critiche né sentimenti originali. Se lo fai, sei fuori.

Esempi? A bizzeffe. Si può aver fatto una vita di battaglie per le “quote rose”, ma la Meloni a Palazzo Chigi è una sciagura a priori. Si può affermare di essere “patrioti”, ma quelli che hai di fronte non sono innanzitutto com-patrioti. Il lessico della “comunità politica” ha sostituito il lessico del “partito” e, una volta tanto, al cambiamento di “nome” ha corrisposto davvero il cambiamento della “cosa”.
In primo luogo il partito non pensa a se stesso come ad un tutto, ma come ad una parte.

Semmai il tutto è la comunità nazionale della quale il partito è parte insieme o contro altre parti. Al partito non si appartiene, semmai al partito ci si associa.

In secondo luogo tra parte e parte vi è un continuum, non un fossato invalicabile. Partiti diversi lavorarono ad una costituzione, in fretta e bene. Le ragioni dell’altro partito si potevano combattere e contemporaneamente comprendere. Nella “repubblica dei partiti” (Scoppola) i conflitti furono accesi e profondamente motivati, ma erano conflitti tra parti, non tra “mondi”.

Infine, dentro una “parte” e tra “parti” diverse si poteva e si doveva discutere. Male, faticosamente, in modo profondamente inquinato da ideologie ed ignoranza, ma si discuteva: la politica era anche cultura. L’elettorato sceglieva, pian piano imparava a muoversi, e nel mondo culturale italiano fiorivano centri di ricerca politica che non replicavano affatto i confini dei partiti. Ora, però, dalla competizione tra partiti siamo passati alla collisione tra comunità (sfere d’acciaio o più spesso solo bolle di sapone).

La sostituzione della logica delle comunità a quella delle parti corrisponde alla scomparsa del “centro”. Non del centrismo delle inique rendite di posizione di cui nessuno avverte la mancanza, ma di un largo “vital center” che si estende da parte della destra a parte della sinistra e nel quale si pensa e si sceglie, nel quale si vive sotto la regola della responsabilità e non sotto il giogo della appartenenza.

La scarsa produttività del sistema politico italiano dipende anche dall’affermazione della logica delle comunità politiche. Il temporaneo protagonismo politico del Quirinale, inaugurato da Scalfaro e che ha toccato il suo vertice con Napolitano, ha trovato un alibi in questa trasformazione.
Torneranno gli attori politici a sentirsi ed a muoversi come parte o resteranno bolle comunitarie? Difficile dirlo, ma se gli attori politici non torneranno a sentirsi ed a operare come parti, il nostro Paese non si sentirà mai comunità, neppure per quel poco che è giusto che si senta tale, ovvero per quel poco che serve ad avere interessi condivisi. Perché tra parti si compete e la competizione unisce saldamente quello che le comunità invece frantumano.

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