Francesco Grillo
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I costi dello Stato/ La spesa impazzita che rallenta il Pnrr

di Francesco Grillo
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Martedì 30 Novembre 2021, 00:09

«Il più grosso problema di un Paese democratico è tenere sotto controllo quanto il governo spende». Il premio Nobel Milton Friedman fu, probabilmente, quello che con maggior lucidità riuscì a catturare uno dei più grandi paradossi della storia. Dalla metà dall’Ottocento, da quando i filosofi cominciarono a vedere nella formazione di grandi concentrazioni di capitale privato il fenomeno destinato a trasformare il mondo, i numeri dicono che l’unico processo davvero inarrestabile è stato l’aumento del peso della spesa dello Stato nelle economie cosiddette capitalistiche. Fino all’esplosione ulteriore avvenuta con la pandemia. Di intervento pubblico una società complessa ha bisogno e, tuttavia, se l’ascesa della spesa pubblica continuasse senza freno ci ritroveremmo ad un punto oltre il quale non rimane più neppure un’economia capace di pagare i costi di quello Stato. E di quel grande paradosso è fondamentale capirne le ragioni e i pericoli.

Secondo i dati raccolti dall’Università di Oxford nel 1880 – quando l’Europa e gli Stati Uniti vivevano la stagione delle grandi rivoluzioni industriali e Carlo Marx cominciò a parlare di capitalismo – lo Stato spendeva circa il 9% del Prodotto Interno Lordo in Inghilterra e il 3% negli Stati Uniti. Cinquant’anni dopo, per reagire alla crisi del ‘29, il Presidente Roosevelt consigliato da Keynes si imbarcò in un programma di investimenti pubblici destinato a passare alla storia e che portò quella percentuale all’11%. Un livello mai raggiunto prima ma che è cinque volte inferiore a quello che gli Stati Uniti raggiungeranno nel 2022: il piano proposto da Joe Biden costerà 2.400 miliardi di dollari e porterà l’amministrazione a spendere più di quanto non abbia fatto per finanziare la seconda guerra mondiale. In Italia la parabola è simile: agli inizi degli anni Ottanta, quelli di una ruggente prima Repubblica, il debito accumulato dallo Stato era attorno al 60% del Pil. Amato, prima, e Monti, poi, si trovarono a dover varare programmi di austerità dolorosi per domare un debito che però continuava a salire al 120% nel 1995 e al 135% nel 2015 e che, oggi, però, viaggia sopra al 160%. Paradossalmente, in proporzione della propria economia spendono molto di meno (meno del 40%) i governi comunisti della Cina o del Vietnam.

I motivi per i quali l’ascesa della spesa pubblica è irresistibile in Paesi di democrazia liberale sono – secondo l’Economist che, questa settimana, dedica un approfondimento alla questione – sostanzialmente tre. L’influenza dei burocrati che sono – per motivi ovvi – la lobby più vicina a chi fa le leggi e tendono ad orientarne le decisioni verso scelte che ne aumentano potere e capacità di spesa. Gli elettori che ovviamente premierebbero chi spende per soddisfare richieste che vengono da uno specifico gruppo e che, però, non ugualmente si sentono toccati da tasse che colpiscono tutti. E, infine, la circostanza che la spesa pubblica riguarda servizi – la sanità e l’educazione, ad esempio – dei quali cresce naturalmente la domanda ed è difficile aumentarne la produttività: un medico non può aumentare il numero di pazienti che visita in un’ora, mentre un operaio può senz’altro moltiplicare il numero di pezzi che produce nello stesso tempo. In effetti, tutti e tre i fattori possono essere disinnescati utilizzando, in maniera intelligente, tecnologie e flessibilità.
Cominciando dagli ultimi due: non è più vero che la produttività dei servizi pubblici sia necessariamente piatta.

La pandemia sta dimostrando che - proprio come con la musica - la competenza del miglior chirurgo e la migliore lezione di matematica possono essere incorporate in robot che operano a distanza e replicate un numero infinite di volte a beneficio di un numero illimitato di pazienti o di studenti. La stessa pandemia dimostra che è possibile monitorare in tempo reale le condizioni di salute delle persone anziane ed intervenire per evitare che intasino gli ospedali.

Gli elettori, poi. Se solo riuscissimo ad allineare alla percezione del vantaggio di una nuova spesa, il costo che essa ha in termini di maggiori imposte, riusciremmo a migliorare la qualità della spesa pubblica e della democrazia stessa. Succede già a Vancouver, in Canada, nelle assemblee di cittadini che costruiscono il bilancio comunale: la valutazione della costruzione di un ponte viene valutata collettivamente e pochi scelgono di scaricare debito sui propri figli se un progetto non dimostra di ripagare i propri costi con una maggiore crescita per tutti.

Infine, i burocrati. È di nuovo la pandemia a dimostrare che forse siamo arrivati alla fine di un intero modo di concepire il lavoro e le amministrazioni pubbliche. Se molto più intensi diventassero gli scambi tra amministrazioni di dirigenti e le porte scorrevoli che - già ora in Francia - portano servitori dello Stato nelle imprese private e viceversa, scomparirebbe l’equivoco del funzionario pubblico che occupa - per sempre - un ruolo istituzionale che vorrà dilatare.

Certo di Stato c’è ancora bisogno e di più politica avremmo bisogno per regolare quella tecnologia che può aumentare la produttività persino degli ospedali e della scuola. E, tuttavia, se l’ascesa della spesa pubblica continuasse senza freno un’economia dipendente troppo dallo Stato può portare ad un’implosione dello Stato stesso. Ciò vale in maniera netta per un Paese - l’Italia - che si trova a gestire un piano di trasformazione (il Pnrr) senza poter aumentare - come ha avvertito la Commissione qualche giorno fa - la spesa ordinaria necessaria per realizzarlo. Sono tempi questi che portano ad una ridefinizione del concetto stesso di Stato, così come di mercato che né i vecchi socialisti, né i liberisti puri saprebbero riconoscere. Il “leviatano” che domina il mondo è un animale strano che deve però assolutamente ridurre nel tempo la sua dimensione e aumentare la sua intelligenza.

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