Ue, il nuovo patto di stabilità rischia di essere troppo flessibile

Ue, il nuovo patto di stabilità rischia di essere troppo flessibile
di Gabriele Rosana
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Venerdì 23 Dicembre 2022, 09:28

Il “Patto di Stabilità e Crescita” per come lo conosciamo dovrebbe essere arrivato all’ultimo giro di boa. E non solo perché tra poco più di un anno esatto, il 31 dicembre 2023, scadrà l’ultima proroga della clausola di salvaguardia che ne congela l’operatività attivata prima con la pandemia e poi confermata con la guerra, ma soprattutto perché i prossimi mesi saranno fondamentali nella messa a punto della riforma della disciplina europea di finanza pubblica. Ed è prevedibile che si riapra il ring per lo scontro tra falchi e colombe, anche se la complessità della bozza avanzata dall’esecutivo di Bruxelles potrebbe rimescolare le carte in tavola.

LA GOVERNANCE

La Commissione Ue, dopo numerosi rinvii, a novembre ha finalmente svelato la sua proposta di revisione del quadro della governance macroeconomica dell’Ue. O, per meglio dire, le linee guida interlocutorie per avviare il confronto tra i Ventisette. Che entrerà nel vivo entro la primavera, quando poi l’esecutivo di Bruxelles presenterà un formale testo legislativo. Il Patto rivisto punta a conciliare tre imperativi, ha spiegato il commissario all’Economia Paolo Gentiloni: «Vogliamo sostenere la crescita e migliorare la sostenibilità del debito, rafforzare la titolarità nazionale delle decisioni di politica economica e, infine, semplificare le nostre stesse regole». I target figli di Maastricht, quelli che fissano il rapporto deficit/Pil al 3% e debito/Pil al 60%, non vengono toccati, ma la disciplina di bilancio vecchia di trent’anni sarà rimodernata nel suo funzionamento in concreto. A seconda del loro livello di debito pubblico (basso, moderato o alto), alla luce di un’analisi che si preannuncia molto articolata, la Commissione indicherà a ciascun Paese un percorso di aggiustamento fiscale che avrà come metro di riferimento la spesa primaria netta, che non tiene cioè conto delle spese per gli interessi sul debito, delle entrate discrezionali (ad esempio l’aumento delle tasse) e delle misure legate al ciclo economico, come l’incremento dei sussidi di disoccupazione in caso di recessione.

IL PARAMETRO

Non ci sarà più una regola unica valida per tutti (com’è stato il caso del mai davvero rispettato taglio di un ventesimo all’anno della quota di debito in eccesso prevista nel “Fiscal Compact”), ma il parametro di riferimento sarà flessibile, un vestito “cucito” su misura su ogni Stato membro. Seguendo, cioè, il meccanismo già sperimentato con il Pnrr: il percorso di rientro del debito dovrà essere «realistico» - ha ricordato Gentiloni - e ciò avverrà sulla base di un accordo bilaterale sottoscritto tra Commissione e ciascun governo, su un orizzonte temporale non più di uno ma di quattro anni, con la possibilità di ottenere un’estensione fino a sette.

Un orizzonte temporale che rischia di rivelarsi poco flessibile e di riproporre i limiti visti con la modifica del Piano nazionale di ripresa.

GLI INVESTIMENTI

L’attuazione delle misure concordate, compresi investimenti e riforme, andrà poi monitorata da vicino da parte di Bruxelles, proprio come avviene con gli obiettivi del Recovery Plan. Per chi non dovesse rispettare gli impegni presi, le sanzioni finanziarie scatterebbero senza troppe cerimonie, e potrebbero spingersi fino a congelare anche l’esborso dei fondi europei, risorse di Next Generation Eu comprese. In vista di un inizio 2023 all’insegna del braccio di ferro sul futuro del Patto, la Germania non ha perso tempo a far calare il gelo sul testo di Bruxelles: «Non è saggio avere accordi individuali sull’applicazione delle regole del Patto, negoziati su base bilaterale», ha commentato il ministro delle Finanze Christian Lindner. E anche in Italia c’è chi pensa che la proposta di Bruxelles così com’è convinca poco o nulla. Anche perché, spiega Veronica De Romanis, docente di European Economics alla Luiss di Roma e alla Stanford University di Firenze, «chi rischia di ricevere le maggiori interferenze da parte della Commissione sono proprio gli Stati, come il nostro, ad alto debito e con squilibri macroeconomici eccessivi». Con questa bozza di riforma, l’esecutivo Ue «si attribuisce maggiori poteri e una buona dose di discrezionalità, con il Consiglio che interviene soltanto nell’adozione del piano predisposto dal Paese in dialogo con la Commissione. Insomma, si va verso il modello Pnrr e si dice quando, dove e come spendere. Però c’è una differenza di fondo: il Pnrr usa debito europeo, mentre con il Patto giudichiamo debito nazionale. Attenzione dunque ai passi falsi. Finché non cambieremo i Trattati e non ci troveremo in una Unione fiscale con un solo Tesoro e un unico ministro Ue dell’Economia, queste scelte essenzialmente politiche spettano ai governi nazionali». Senza contare che le pagelle alla sostenibilità del debito redatte da Bruxelles «potrebbero avere l’effetto collaterale, se negative, di far innervosire i mercati e di sbarrare l’accesso al Tpi», lo scudo anti-spread della Bce. C’è pure un malinteso di fondo, avverte ancora De Romanis: «Se l’obiettivo di cambiare le regole del Patto è ridurre i sentimenti euroscettici, temo che l’effetto possa essere l’opposto e possa farci sprofondare nel coro populistico del “ce lo chiede l’Europa”». Insomma, anche la nuova formulazione del Patto sarà probabilmente fonte di polemiche e di confronti muscolari con i governi dei Paesi che esprimono contabilità non equilibrate o che soffrono di un debito eccessivo. E l’Italia è sicuramente uno di questi.

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