Oggi, al contrario, nulla di tutto ciò. Qualche mugugno, un paio di articoli malevoli, un generico sentimento da si stava meglio quando si stava peggio tra le scrivanie di qualche redazione e poco altro. Per il resto, un confronto civile basato su argomenti razionali.
C'è chi pensa che la nuova Mondazzoli sia un'opportunità per competere a livello internazionale e chi storce il naso di fronte ad una concentrazione senza precedenti, ma nessuno lancia anatemi o evoca il Ventennio. Sembra quasi di vivere nel Paese normale che un autore Mondadori sognava qualche anno fa: un luogo nel quale le decisioni aziendali rispondono a criteri di mercato e vengono valutate in quanto tali. Un Paese nel quale si può discutere di cultura, di media e di editoria senza precipitare immediatamente nella guerra civile delle barricate contrapposte.
Rispetto al passato sono cambiate due cose. La prima è legata al mondo dell'editoria. Dove anche i più prevenuti hanno capito che i grandi gruppi non hanno alcun interesse a rendere tutti uguali i singoli marchi e ancor meno a censurarli. Einaudi non ha certo cambiato linea entrando a far parte del colosso di Segrate, così come Bompiani, Adelphi e Marsilio hanno conservato le proprie, distinte identità pur facendo capo alla Rizzoli. Alla luce dell'esperienza degli ultimi anni, neppure il girotondino più incallito riuscirebbe a sostenere che i grandi gruppi editoriali rappresentino una minaccia per la libertà di espressione.
Il cambiamento principale, però, è avvenuto a livello politico. Berlusconi c'è ancora. Gli antiberlusconiani pure. Ma la frattura decisiva non passa più di lì. Il fuoco del dibattito si è spostato altrove e le categorie mentali cha hanno dominato l'intero arco della Seconda Repubblica sono finalmente esaurite. Ciò non significa che siano esauriti i problemi. Ma può darsi che d'ora in poi si riesca ad affrontarli in modo un po' più laico. Sulla base dei fatti, anziché delle ideologie.