Eugenia Tognotti, storica della medicina: «Scienziate sottovalutate, grandi contributi alla ricerca ma ancora pochi premi»

Eugenia Tognotti, storica della medicina: «Scienziate sottovalutate, grandi contributi alla ricerca ma ancora pochi premi»
di Maria Lombardi
9 Minuti di Lettura
Sabato 12 Febbraio 2022, 16:33

Gli studi di Rosalind Franklin, chimica e biochimica inglese, sono stati decisivi nella scoperta della struttura a doppia elica del Dna, ma il Nobel è andato ai colleghi Watson e Crick. Lo stesso destino di tante altre scienziate, dall'astrofisica Jocelyn Bell Burnell alla fisica Lise Meitner, i meriti e i premi (Nobel)  dei loro studi se li sono presi altri. Oggi è tutta un'altra storia, ma fino a un certo punto. «Resta la perdurante sottovalutazione dei contributi delle donne nei team scientifici. C'è ancora un pregiudizio implicito contro le donne come esperti e scienziati accademici», come sottolinea Eugenia Tognotti, professore ordinario di Storia della Medicina e Scienze Umane  all'università di Sassari. Non è un caso se solo il 24% delle donne occupa posizioni accademiche di alto livello e appena il 27% dei comitati scientifici e consultivi delle organizzazioni di finanziamento alla ricerca è al femminile.

Professoressa Tognotti, che bilancio farebbe del ruolo delle donne nella scienza all'indomani  della giornata internazionale a loro dedicata?

«Richiamerei il fatto che le ricercatrici nei campi Stem, della scienza, della tecnologia, dell'ingegneria e della matematica hanno fatto molta strada dal secolo scorso, ma resta il dato della perdurante sottovalutazione dei contributi delle donne nei team scientifici. Vorrei segnalare un paradosso: la pandemia Covid-19 ha messo in luce il ruolo importante in questo periodo delle donne ricercatrici , il più importante, anzi, rispetto a qualsiasi altro nella storia recente. I loro nomi sono rimbalzati sui media - in diverse fasi della lotta a Sars-Cov-2: dall'avanzamento delle conoscenze sul virus, allo sviluppo di tecniche per i test, alla creazione del vaccino . Eppure nessuno dei premi Nobel per la scienza 2021 è andato ad una donna».

Il 96% degli scienziati vincitori di premio Nobel è rappresentato da uomini e sono sempre loro ad aggiudicarsi riconoscimenti accademici. Esiste ancora un gap non nella ricerca ma nei riconoscimenti e nei ruoli accademici. Perché, secondo lei?

«La ricezione di premi e riconoscimenti professionali da parte delle donne è aumentata negli ultimi due decenni, ma gli uomini continuano a vincere una percentuale maggiore di premi per la ricerca accademica rispetto a quanto ci si aspetterebbe in base alla loro rappresentazione nelle commissioni e nei pool di nomination. Questo dimostra quanto la scienza sia stratificata, con una distribuzione ineguale di premi e riconoscimenti, fondamentali per plasmare le traiettorie della carriera scientifica. Uno studio recente ha dimostrato la presenza, pervasiva, di un pregiudizio implicito contro le donne  come esperti e scienziati accademici  che si manifesta nella valutazione e nel riconoscimento del lavoro delle donne. Anche quando una donna diventa una scienziata di livello mondiale, persiste un pregiudizio implicito che si manifesta in una minore probabilità che venga invitata come relatore principale o ospite per condividere i risultati della sua ricerca,  cosa che riduce sia la sua visibilità in un determinato campo della scienza, sia la probabilità che venga nominata per premi . Del resto non sfugge a nessuno  lo squilibrio di genere nella citazione di nomi di scienziate ed ‘esperte’ anche nelle notizie su scoperte e argomenti nei campi Stem».

 Una sua citazione del versetto del Vangelo di Matteo ("Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha") rivela una visione pessimista sulle possibilità delle ricercatrici di conquistare maggiore visibilità. Ci può spiegare perché?

«Ho fatto riferimento a quel verso per spiegare quello che è indicato come ‘effetto Matteo’ . Riguarda  la tendenza ad attribuire il riconoscimento di un lavoro scientifico ad uno scienziato di fama piuttosto che ad un collega con poche pubblicazioni alle spalle. Di qui quello che viene indicato come " Effetto Matilda "  che riconduce al divario di genere nei riconoscimenti, nei premi e nelle citazioni. Come emerge da alcuni studi, gli uomini citano i propri articoli il 56 per cento in più delle donne. La ricerca di queste ultime ha meno probabilità di essere citata da altri e i loro risultati di ricerca hanno maggiori probabilità di essere attribuite agli uomini. In più le donne sono sottorappresentate nei board delle riviste scientifiche , come studiose senior e autrici principali e come revisori tra pari. Questa emarginazione nelle posizioni apicali va contro la promozione della ricerca delle donne. E non dimentichiamo che la selezione e il finanziamento della ricerca in Italia e in Europa sono nelle mani, in gran parte, di accademici maschi. Le donne sono sottorappresentate e questo, naturalmente, non può che diminuire il loro peso complessivo nella scienza e nella politica della scienza».

Quando sono arrivati i primi riconoscimenti per le scienziate?

«Credo che il premio Vittorio Emanuele attributo ad una ricercatrice bolognese nel 1884 sia stato il primo. Il premio internazionale dedicato alle donne ricercatrici è nato alla fine del secolo scorso : si tratta del premio Unesco For Women in Science che premia cinque candidate, una per ciascuno dei cinque continenti. Oltre ai premi principali per studi d’eccellenza nel campo delle scienze della vita e dell’ambiente, sono attribuite ogni anno 15 Borse internazionali e numerose borse di studio nazionali a giovani ricercatrici. Nel nostro Paese il programma “L’Oréal Italia Per le Donne e la Scienza” ha assegnato in questi anni 94 borse di studio ad altrettante scienziate: l’obiettivo è quello di sostenere le donne che faticano ad affermarsi nel campo della ricerca, in un ambito percepito ancora come prettamente maschile, in cui per le donne è più difficile farsi spazio o raggiungere posizioni più elevate».

Ci può citare qualche caso di scienziata a cui sono state rubate le ricerche? Qual è stata la più grande ingiustizia?

«C’è solo l’imbarazzo della scelta. Il caso più clamoroso di ingiustizia è quello della giovane scienziata Rosalind Franklin che ha dato un fondamentale contributo alla scoperta della struttura a doppia elica del DNA, la più grande scoperta scientifica del ventesimo secolo: furono alcuni dei suoi dati inediti, e l’ immagine di diffrazione dei raggi X di una molecola di DNA a dare una spinta ai suoi colleghi Watson e Crick – poi premiati col Nobel insieme a Maurice Wilkins - nel creare il loro famoso modello di DNA. Il suo ruolo, rimasto a lungo nell’ombra, si è imposto solo di recente, dopo l’uscita in America della sua biografia che ha rivelato quanto fosse (sia?) difficile per una donna farsi accettare nel mondo scientifico. Ma la storia della scienza è piena di fondamentali risultati di studi condotti da donne e attribuiti agli uomini. Come le scoperte della patologa e istologa Giuseppina Cattani, brillantissima scienziata vissuta a cavallo tra XIX e XX secolo che riesce ad isolare una coltura del bacillo del tetano che porterà alla messa a punto del siero antitetanico. La sua scoperta è comunemente attribuita al professore e di cui era assistente all’Università di Bologna , Guido Tizzoni che, in verità, si batté , invano, contro i pregiudizi che le impedirono di diventare professore ordinario. L’onore del Nobel per la Medicina assegnato nel 1957 a Daniel Bovet sarebbe spettato a buon diritto anche a sua moglie, la chimica/ farmacologa Filomena Nitti, figlia dell’economista e politico Francesco Saverio Nitti, fuoriuscito in Francia negli anni del fascismo . Al suo fianco per lunghi anni all’Istituto Pasteur – dove operava anche suo fratello Federico, brillante ricercatore - aveva firmato con lui una serie sterminata di pubblicazioni sulla sintesi degli antistaminici, sull’uso del curaro come coadiuvante nell’anestesia , seguendolo poi nelle sue ricerche al Laboratorio di Chimica Terapeutica dell'ISS a Roma. Fa una certa impressione, per la verità, per chi conosce la sua sterminata produzione scientifica, vederla citata come ‘madame Bovet’ o ‘signora Bovet’ nelle memorie di ex ricercatori del Pasteur, dagli allievi dell’Istituto e negli elenchi degli invitati nelle commemorazioni ufficiali in Senato o alla Presidenza della Repubblica».

 Lei è una della più grandi studiose dell'influenza spagnola. Che ruolo ebbero le donne, soprattutto infermiere, nella lotta al virus?

«L’oscuro lavoro di cura delll’esercito di donne – di ogni età e condizione , che si presero cura dei malati di Spagnola, nelle città e nelle campagne - non ha lasciato alcuna traccia nei documenti ufficiali e nelle statistiche, se non per quanto riguarda l’incremento del numero delle infermiere volontarie circa 10 mila ( tra Croce Rossa, Società di Soccorso, Croce Bianca, Croce d’Oro, Croce Verde, Dame della Misericordia, etc.) . Data la scarsità di medici, e nel vuoto di farmaci efficaci e vaccini, assistere gli ammalati, tenerli al caldo, sanificare gli ambienti, somministrare i pochi rimedi disponibili, erano gli unici trattamenti di qualche efficacia, per i colpiti da influenza nelle forme meno gravi: crocerossine, volontarie, infermiere professionali, suore diventarono le principali assistenti della pandemia tra le popolazioni civili, negli ospedali e nei presidi sanitari nelle zone di guerra, dove ai feriti nei combattimenti si aggiunsero, nel settembre-ottobre 1918- i soldati colpiti dalla terrificante influenza . Ma, in generale, il tradizionale ruolo femminile di accudimento acquista un nuovo significato, avvertito dai contemporanei, ma subito dimenticato all’indomani dell’emergenza sanitaria, a cui è seguita una lunga eclissi di memoria . Furono le donne a colmare il tremendo vuoto creato dalla guerra nella sanità pubblica e a prendersi cura del ‘corpo’ della Nazione in guerra e travolta dalla pandemia, prestando assistenza a masse di feriti, mutilati, moribondi, malati, mettendo in campo trattamenti per alleviare la malattia, per assicurare l'isolamento, il sollievo dal dolore, il riposo a letto, il calore. É una pagina dimenticata che solo col risveglio dell’interesse e degli studi su quella lontana pandemia , spinto da Covid-19, sta cominciando a tornare alla luce».

Si può fare un confronto con l'ultima pandemia? E se sì, in che cosa?

«Le grandi emergenze sanitarie , contrariamente a quanto si crede, non sono ‘livellatrici : un evento epocale come la crisi di salute pubblica causata dalla terrificante pandemia d’Influenza del 1918 comportò in Italia un fardello sproporzionato per donne e ragazze, costrette ad assumere molteplici responsabilità di cura a casa e fuori casa. Lo stesso è avvenuto col Covid-19 , in particolare nelle aree in cui i divari di genere sono tradizionalmente elevati sia nel mercato del lavoro sia nel carico sulla famiglia , aumentato con la chiusura delle scuole e degli asili nido. É venuta a mancare – con l’attuazione obbligatoria del distanziamento sociale - l’assistenza quotidiana fornita ai bambini dai nonni . Sono aumentate le difficoltà nell’equilibrio tra lavoro e vita privata, particolarmente difficile da raggiungere quando i partner hanno continuato a lavorare fuori casa durante l'emergenza Sarah Gilbert Jaqueline Goes de Jesus».

 Quali sono le scienziate eroine della pandemia dei nostri giorni? 

«Tra i nomi posso ricordare l’immunologa Özlem Türeci , la scienziata di origine turca che vive da anni in Germania , co-fondatrice Insieme al marito  della BioNTech  ha messo a punto il vaccino. Inoltre tra Sarah Gilbert, Università di Oxford, la scienziata britannica co-autrice del vaccino AstraZeneca; la dottoressa australiana Kirby White, la ricercatrice biomedica brasiliana Jaqueline Goes de Jesus dopo la conferma del primo caso di Covid-19 nel suo paese».

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