Braccio amputato alla paziente, mezzo milione di risarcimento

Braccio amputato alla paziente, mezzo milione di risarcimento
di Stefano Buda
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Martedì 24 Settembre 2019, 09:18
Costa caro, alla clinica Pierangeli di Pescara, un grave caso di sanità culminato con l’amputazione di una parte del braccio di una paziente. Il giudice del tribunale civile, Gianluca Falco, ha condannato l’ortopedico Giovanni Di Ianni e la casa di cura pescarese ad un risarcimento di quasi mezzo milione di euro in favore di una donna che, in seguito ad una lunga serie di errori commessi dal medico, subì l’amputazione di circa la metà dell’arto.

Il calvario della signora iniziò sul finire del 2008, quando aveva appena compiuto 41 anni e si rivolse all’ortopedico della clinica Pierangeli, lamentando un forte dolore alla spalla destra e intensi formicolii alle dita della mano. La donna fece anche presente di essere in cura, dal 2007, presso l’ospedale di Pisa, per un tumore del midollo osseo. Nel gennaio del 2009, sulla base di quanto emerso dai raggi, Di Ianni le diagnosticò una sindrome del tunnel carpale alla mano e una metastasi da mieloma alla spalla. Di conseguenza ritenne necessario intervenire con l’operazione di “exeresi mielosa spalla destra”, consistente nell’estrazione della supposta massa tumorale e nel contestuale riempimento in cemento. Alla paziente, dopo l’operazione, venne prescritto l’utilizzo di un tutore in panno e della borsa del ghiaccio, ma nel corso del trattamento, in seguito ad un banale movimento dell’arto, la donna riportò ciò che nel referto è descritto come una “frattura patologica del collo dell’omero destro per mieloma”.

L’esame istologico dei tessuti, in realtà, escludeva la presenza di massa tumorale, ma i risultati furono comunicati alla paziente solo 5 giorni dopo il secondo intervento chirurgico, eseguito da Di Ianni il 19 ottobre 2009 e consistente nell’inserimento di un placca in titanio e di 10 viti nella spalla, al fine di saldare la frattura. La donna però continuava ad avvertire forti dolori e in sostanza rigettò i corpi estranei impiantati nel suo corpo. Per questo il 23 ottobre 2010 fu sottoposta ad un terzo intervento, sempre presso la clinica Pierangeli, per asportare i materiali precedentemente impiantati. I dolori tuttavia non cessarono, la donna non riusciva minimamente a muovere l’arto e grazie ad una Tac scoprì che due viti e del cemento erano rimasti nei tessuti. Persa la fiducia in Di Ianni, la paziente si rivolse all’Istituto Rizzoli di Bologna, dove le fu spiegato che l’unico modo per salvare parte dell’arto era quello di amputare la metà del braccio destro e installare una protesi in titanio. Eseguita l’operazione, il calvario finalmente ebbe fine e la donna decise di rivolgersi all’avvocato Marco Ciccocioppo, dello studio Legali Associati, che diede il via ad una lunga battaglia giudiziaria.

Per il tribunale civile l’imperizia del medico risulta dimostrata “sin dal primo accesso della donna” nella struttura. Il giudice, sulla base della relazione del perito, imputa a Di Ianni di non avere compiuto una risonanza magnetica, “necessaria sia per la determinazione del quadro diagnostico sia per la scelta del trattamento”. Allo stesso modo bolla come frutto di imperizia “la conseguente ed errata diagnosi”, ma anche “la scelta e la modalità di esecuzione” dei tre interventi e le relative terapie postoperatorie adottate. Infine il giudice considera il medico responsabile di “avere omesso la comunicazione del risultato negativo dell’esame istologico del 24 ottobre 2009, determinando una grave lesione del diritto alla autodeterminazione della paziente”. La vicenda è approdata anche davanti al tribunale penale, che nel 2017 pronunciò una sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto. Più di recente, in seguito al ricorso presentato dall’avvocato Ciccocioppo, la Corte d’Appello dell’Aquila ha riformato la sentenza, ritenendo improcedibile il giudizio per prescrizione del reato.
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