Il tennis secondo John McPhee, una palestra di letteratura

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Una partita di tennis raccontata sulla pagina punto per punto: più di vent'anni prima dei geniali scritti sportivi di David Foster Wallace c'era John McPhee, giornalista del New Yorker che, nel 1968 ha dilatato fino quasi a grandezze omeriche la semifinale degli Us Open tra Arthur Ashe e Clarck Graebner. Il lungo racconto "Livelli di gioco" apre il volume "Tennis", curato per la casa editrice milanese da Matteo Codignola. "E' una scommessa vinta - ci ha detto - molto difficile, perché il tennis e lo sport è sono difficilissimo da raccontare, perché spesso diventa troppo tecnico o troppo romantico e non si trova mai la via di mezzo".A sorprendere sono la misura e il passo che McPhee imprime alla narrazione che, alla fine, si presenta quasi come letteratura pura. "Il racconto - ha aggiunto Codignola - ha un'aria di verità, di immediatezza e di cosa giusta che non è facile riscontrare altrove".Nel libro anche un testo, tra l'appassionato e l'esilarante, di Codignola, per sua stessa ammissione ossessionato dal tennis. "Non c'è nessuna differenza - ha concluso l'editore - tra il tennis e quello che si fuori dal tennis, questo è diciamo un vantaggio, ma anche uno svantaggio". Un modo di essere ambivalente che è anche, in un certo modo, la cifra del libro, sempre in bilico tra la cronaca sul campo e la ricerca di una profondità che è sì quella del rovescio di Ashe, ma anche quella dell'animo umano.