«Impedire che un solo macchinario e un solo grammo di prodotto sia portato fuori». La Treofan è occupata dopo la call di lunedì con il liquidatore della Jindal, durata appena 20 minuti e dall'esito negativo. Nessun accordo al ribasso e difesa a oltranza dei macchinari, questo ha deciso l'assemblea che si è tenuta in mattinata. «La trattativa sembra quasi conclusa - dice il delegato sindacale David Lulli - non c'è modo di discutere con la proprietà, andiamo dritti per la nostra strada». Che è quella di rifiutare ogni tipo di accordo al ribasso.
Per mandare il messaggio forte e chiaro, l'hanno scritto su un lenzuolo bianco anche in lingua indiana: «Jindal dove sei? Chiudi le tue fabbriche? Perchè?».
Oggi giornata decisiva con il Ministero del lavoro, a meno di un miracolo non ci sarà il sospirato accordo per la conciliazione. A quel punto scatterà la messa in liquidazione e il licenziamento per i 142 lavoratori. Che venerdì, giorno atteso per il giuramento del premier incaricato Mario Draghi, porteranno una delegazione a Montecitorio. «Rigettando l'accordo, Jindal ha decretato la indisponibilità a trovare una soluzione pacifica alla vertenza - spiegano in una nota Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil - motivo per cui ora si prepara la durissima battaglia legale che porterà la multinazionale di fronte ai giudici italiani e saranno chiamati a rispondere. Nel frattempo la fabbrica torna nelle mani dei lavoratori».
Jindal, insomma, ha rigettato le mediazioni che avrebbero agevolato il processo di reindustrializzazione del sito produttivo. Con l'unico obiettivo, denunciano i sindacati, di «distruggere definitivamente lo stabilimento di Terni, trascinando in una complessiva agonia l'intero polo chimico e la comunità ternana».
Solidarietà alle lavoratrici e ai lavoratori dai gruppi di opposizione in consiglio comunale: «Pronti a sostenere qualsiasi iniziativa, anche l'esproprio» dichiarano in una nota congiunta. «Questa vertenza è dell'intera città di Terni - aggiunge il presidente di Confcommercio Terni, Stefano Lupi - la scellerata decisione di chiusura da parte della multinazionale indiana crea un'ulteriore ferita nel tessuto economico del nostro territorio, gettando nella disperazione 142 famiglie oltre ai lavoratori dell'indotto. La dignità delle persone va tutelata e salvaguardata. Al momento non vi è nessuna ipotesi di reindustrializzazione del sito produttivo, la proprietà cancella un'azienda che viene sacrificata su becere logiche di mercato, non perché non profittevole» conclude Lupi.