«Chiamatemi sindaco e non sindaca!»: Dopo Beatrice Venezi anche la sindaca di Amelia per i nomi che indicano ruoli professionali al maschile

Il sindaco di Amelia Laura Pernazza
di Francesca Tomassini
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Domenica 7 Marzo 2021, 09:36 - Ultimo aggiornamento: 12:44

TERNI «Condivido, chiamatemi Sindaco e non Sindaca!» Le parole arrivano dalla prima cittadina di Amelia Laura Pernazza che, sull’onda delle dichiarazioni rilasciate durante il festival di San Remo dalla direttrice d’orchestra Beatrice Venezi, l’artista che ha corretto Amadeus chiedendogli di essere chiamata direttore, ha espressamente chiesto ai suoi concittadini di fare altrettanto. Una posizione che ha trovato d’accordo anche altri esponenti politici del territorio, a cominciare da alcune delle sue consigliere di maggioranza, fino alla giovanissima vice sindaca di Attigliano Sara Nicchi

«Mi trovo d’accordo con la posizione della Pernazza -ha precisato- l’importante è il valore della persona».Ma viene da chiedersi: allora perchè non mettiamo tutti i nomi al femminile? Gli uomini accetterebbero? Chissà.

La richiesta, se da tanti amerini è stata accolta come più che legittima, ha suscitato, nella sua complessità che va ben oltre i confini territoriali, riflessioni e qualche amara constatazione. Non da ultimo di natura specificatamente grammaticale.

«Se è una donna a parlare -precisa Beatrice Curci , giornalista ormai diventata orvietana, che fa parte dell'associazione "Giulia giornaliste"- e vuole essere connotata al maschile, mostra soprattutto la sua incompetenza nell’uso della grammatica della lingua italiana. Legittimo, senza dubbio, ma non meglio. Anzi dannoso». Alla questione della declinazione al femminile, tra l’altro ormai ampiamente riconosciuta dall’Accademia della Crusca come corretta, si aggiunge quella identitaria. «L’importanza del linguaggio di genere è anche nell’uso corretto delle parole -precisa la Curci- proprio per abbattere pregiudizi e ignoranza». Direttore contro direttrice, sindaca contro sindaco, avvocato contro avvocata. Una diatriba che, alla faccia di qualsiasi lotta o rivendicazione, da quella linguistica a quella sociale, continua a fare prigionieri. «A cadere sul fronte della differenza di genere -commenta Silvia Fornari, professoressa di Sociologia all’Università di Perugia - ancora una volta sono proprio le donne che, raggiunta una posizione apicale in carriera, rivendicano per se stesse un appellativo al maschile. Questo è il segno -precisa- che abbiamo incarnato in maniera totale il significato del valore al maschile. Le donne vivono il valore al maschile, perchè al femminile è diventato una diminutio». Sulla stessa lunghezza d’onda la consigliera di parità della regione Umbria Monica Paparelli. «Al di là di qualsiasi caso particolare - ha dichiarato- possiamo fare qualche considerazione maturata dall’assemblea delle consigliere di parità a livello nazionale. Abbiamo bisogno di donne che affermino che avere una connotazione di genere femminile è sacrosanto. L’arrocco delle donne su una posizione di genere al maschile -continua- affonda le sue radici nella convinzione che se connotata al maschile, una professione ha un carico di responsabilità e opportunità maggiori». A questo proposito un segnale in controtendenza arriva dalla scuola, terreno fertile per eccellenza. «Quando si cerca di veicolare un contenuto ai bambini - spiega l’insegnante di scuola primaria Camilla Paolucci- è vero che bisogna semplificare. Questo non significa però utilizzare un linguaggio semplicistico. Dovrebbe esistere un confine preciso oltre il quale la semplificazione non può spingersi. Le parole sono importanti e definiscono l’identità, questo è un concetto fondamentale che bisognerebbe coltivare e interiorizzare fin da piccoli».

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