Pamich e gli spalti vuoti: «Peccato, i giapponesi si sarebbero distanziati»

Pamich e gli spalti vuoti: «Peccato, i giapponesi si sarebbero distanziati»
di Piero Mei
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Giovedì 22 Luglio 2021, 07:30 - Ultimo aggiornamento: 23 Luglio, 11:07

La lunga marcia di Abdon Pamich si calcola, secondo gli statistici di prima dell’algoritmo, in 11.860 chilometri in gara più, misurati a spanne, altri dieci volte tanti per gli allenamenti. Più quelli di dopo: perché Pamich, classe 1933, ancora marcia di prima mattina: «Fino all’anno scorso facevo anche 12 o 13 chilometri al giorno, adesso 7 o 8». Lo fa a Roma, dove vive, «su una pistina che è di 110 metri in salita». Ci pensa un po’ e aggiunge: «O in discesa, dipende dal senso di marcia. È una strada che doveva essere una grande arteria, ma finisce contro un muro e s’è capito subito che sarebbe stato solo un grande parcheggio». Dalle parti di Villa Bonelli. Di tutti questi chilometri, ce n’è di quelli che valgono i 40 titoli italiani che vanta, i trionfi internazionali, i campionati europei, le cinque Olimpiadi da Melbourne a Monaco, il bronzo di Roma. E, soprattutto, ci sono i 50 chilometri d’oro di Tokyo l’altra volta, quella del ’64. Dici Tokyo e il primo ricordo è «una grande confusione: tutta quella gente!». Tifavano? «Altroché! E dopo che mi è successo il guaio, anche di più». 
THÈ FREDDO
Il “guaio”, per dirla con il campione, fa parte di diritto della storia olimpica. «Pioveva, era freddo, le bevande per il rifornimento andavano consegnate il giorno prima. Presi thè freddo». Il vortice intestinale fu quasi immediato. L’inglese Nihill («quello era il suo giorno»), l’unico avversario che a quel punto ne tenesse il passo di marcia, gli scappò. Pamich si torceva perché non gli scappasse altro. Il punto sosta era lontano. Uscì dal percorso e, protetto dagli sguardi nipponici da qualche addetto alla sicurezza, si liberò. Riprese il cammino, riprese l’inglese, vinse l’oro. «I giapponesi applaudivano anche più di prima. È un peccato che ora il pubblico non ci sia: saranno Giochi tristi. Secondo me si poteva fare di più: magari un numero ristretto di spettatori, sparpagliati che tenessero la distanza necessaria; tanto più che i giapponesi sono tipi ordinati; di sicuro se davano loro un numero, si mettevano lì ordinati».
IN TV
Pamich, come il mondo intero, guarderà le Olimpiadi in tv: «Specie la boxe: mi piace, mi è sempre piaciuta. Da ragazzino andavo in palestra da mio zio a Fiume, dove sono nato. Poi è successo quello che è successo». I ragazzi Pamich, Abdon e suo fratello Giovanni, scapparono clandestini in Italia.

Trieste, Udine, Novara, campi di raccolta. Giovanni marciava e vinceva. «Mi presentai a una campestre, mi chiesero come mi chiamassi, dissi Pamich e mi fecero “allora devi marciare?”. E mi mandarono dal tecnico Malaspina». Che gli insegnò tutto. In gara a 18 anni: «Ma era un’altra marcia. La chiamano “evoluzione”. Prima, la mia marcia, era la trasposizione agonistica del camminare. Era andare da un posto all’altro, da Lugano a Chiasso, da Londra a Brighton, da Praga a Podebrady, da Roma a Castel Gandolfo». Pamich le ha vinte tutte e più d’una volta; in una occasione, a Castel Gandolfo, il suo successo fu annunciato all’Angelus da Papa Montini. Ai tempi di Tokyo, Pamich viveva a Genova, dove lavorava per la Esso: «Mi allenavo di sera, ma il tempo e i chilometri non bastavano allo scopo; così mi rifacevo nel weekend, il sabato 25 chilometri, la domenica 50/60; da Genova a Recco, e poi su verso Uscio; che bel percorso, tutto curve, mica come le gare di adesso, tutte in rettilineo, in circuito, la strada piana, che non serve dover stare attenti ai saliscendi naturali. L’atletica di oggi! Questi record, quelle gare che si fanno con le lepri, una fin lì, un’altra più avanti. Non c’è bisogno di fantasia, che era il bello della gara, inventare la tattica, il divertimento era l’aleatorietà della gara». La più fascinosa delle quali era «la 100 chilometri della Gazzetta. Andava in prima pagina, e poi tutti quegli articoli di colore! Quanti ragazzi hanno scelto la marcia solo per fare quella». Era lo sport estremo di allora? «Non proprio: lì si superava il limite della fatica; gli sport estremi affrontano il limite del rischio». Ma tra i marciatori attuali? «Schwazer il più forte, poi è successo… La prima volta era colpa sua, la seconda lo hanno incastrato». E gli altri? «Non saprei, è tutto diverso: come fai ad allenarti per i soldi? E poi, se vinci dopo scegli le gare facili, i guadagni. Per me più la gara era dura, e meno lo era, perché mi preparavo alle sofferenze e alla fine dicevo “tutto qui?”. Non avevo faticato quanto avevo pensato». Ci pensava di notte alla vigilia? «Per la verità dormivo. Solo una volta non riuscivo a prender sonno; il medico mi ha dato qualcosa; non ho dormito lo stesso e il giorno dopo mi sentivo le gambe tagliate”. Non era a Tokyo, 18 ottobre 1964. Numero di pettorale? «47? 48? Non sono superstizioso, non ci facevo caso. E poi basta guardare una fotografia». Guardata: era il 47. 

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