Padri famosi e figli calciatori, se il cognome non basta per la serie A

Diego Armando Maradona
di Antonello Valentini
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Giovedì 29 Settembre 2016, 11:57
In Serie A sono 4, Destro, Simeone, Di Francesco e Chiesa; altri 7 giocano in B, Di Livio, Somma, Comi, Ganz, Zigoni, Mannini, Bisoli: 11 figli d'arte nel calcio che conta. Ma fra tanti eccessi, vizi e difetti, il calcio - almeno quello giocato - contraddice il malcostume italiano della raccomandazione. «Gli italiani, un popolo di santi, poeti, navigatori, di nipoti e di cognati», chiosava Ennio Flaiano. A certi livelli non c'è procuratore che tenga: arriva chi se lo merita, chi ha numeri e talento, non bastano cognomi suggestivi che hanno riscaldato il cuore dei tifosi. L'esempio più eloquente è quello del figlio del dio Maradona, che ancora oggi contende a Pelé il titolo di miglior calciatore di tutti i tempi. Dopo 7 anni nel vivaio del Napoli, un'apparizione nella Nazionale under 17 e la ritirata sul fronte del beach soccer, Diego Maradona junior è scivolato tra i Dilettanti e gioca oggi nella Promozione campana con la maglia del Quartograd, benemerita squadra dei Centri sociali di Quarto.

Se non sai stoppare il pallone, non riesci a scalare in difesa e non hai gamba, come dicono quelli che ne capiscono, puoi chiamarti come vuoi, ma finisci nelle retrovie, vieni inghiottito in qualche campionato minore all'estero o vai a divertirti fra i dilettanti. Di Mattia Destro, i meno giovani ricordano il padre Flavio (4 stagioni in A con l'Ascoli); e così Federico Di Francesco, figlio di Eusebio, oggi tecnico del Sassuolo, centrocampista di Roma e Nazionale; oppure il figlio di Enrico Chiesa (anche lui ex Azzurro), Federico, che con la maglia della Fiorentina ha esordito sul campo della Juve; e Giovanni Simeone, primo gol in A col Genoa domenica scorsa, erede dell'attuale tecnico dell'Atletico Madrid, Diego, protagonista in Italia con Lazio e Inter.

E poi i figli d'arte già sbarcati in Serie B, quasi tutti nel giro delle Nazionali giovanili. Nel calcio dei professionisti, per fortuna, meritocrazia non è ancora una parolaccia. A firmare le assunzioni è solo il campo, e non in nome del padre: non siamo mica alle cattedre universitarie o ai concorsi statali. Almeno in questo, viva il calcio.