Gabriele Lavia: «Nei Giganti di Pirandello la paura di morire»

Gabriele Lavia in I giganti della montagna
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Giovedì 28 Febbraio 2019, 09:08
Dopo Sei personaggi in cerca d’autore e L’uomo dal fiore in bocca… e non solo, Gabriele Lavia chiude la sua personale trilogia pirandelliana con I giganti della montagna, l’ultimo dei miti, testamento artistico di Luigi Pirandello e sintesi più alta di tutta la sua poetica.

La nuova produzione della Fondazione Teatro della Toscana - in coproduzione con il Teatro Stabile di Torino e il Teatro Biondo di Palermo - va in scena, al Piccolo Teatro Strehler, fino al 10 marzo. Una compagnia di teatranti guidata dalla contessa Ilse arriva alla villa detta “La Scalogna”, dove vive uno strano mago che dà loro rifugio: Cotrone, che dice di essersi fatto turco per il fallimento della poesia della cristianità.

Ma chi è Cotrone? Certamente è Pirandello stesso. Ma non solo,
«è anche qualcosa di più” – scrive Gabriele Lavia nelle note di regia – “È colui che vive rifugiato o emarginato nella propria illusione che il Teatro, cioè l’arci-poesia, la poesia originaria, possa essere il Luogo Assoluto. Fuori da ogni contaminazione. Lontano da quei Giganti, da quelle forze brute, da quegli uomini (forse noi stessi!) che mettono paura solo a sentirli passare al galoppo!».

Nella Villa avvengono le magie dell’Arte: straordinari prodigi che non hanno bisogno di mezzi materiali per accadere. Succedono e basta. Questi eventi sono possibili solo nel mondo dell’oltre, della fantasia, della sovra-realtà, ai confini della coscienza, ai margini dell’esistenza, dove finisce quel gruppo di attori sperduti e disperati, perché senza più un teatro dove recitare, goffi sacerdoti di un’arte delusa, infelice, incompresa, impoverita, com’è diventato il Teatro. Un tempo e un luogo indeterminati, tra la favola e la realtà. Ed è in questo luogo sospeso, in questo tempo non misurato, che il Teatro può accadere, nella “finita infinità” che è la solitudine dell’ “anima sola con se stessa”.

Continua il regista:
«Noi sappiamo che Pirandello sapeva con certezza di dover morire mentre scriveva i Giganti, il cui titolo iniziale doveva essere I fantasmi.
Al medico che lo visitava aveva domandato, un po’ irritato: ‘Dottore mi vuol dire che è questo?’. E il dottore gli aveva risposto: ‘Professore... lei non deve aver paura delle parole…. questo è… morire’. Pirandello, che stava scrivendo una nuova sceneggiatura del Mattia Pascal, la mette da parte e scrive i Giganti di cui aveva già alcune scene del primo atto. Alla fine del secondo atto scrive le ultime cinque parole della sua vita e di tutto il Teatro delle maschere nude: ‘Io ho paura, ho paura...’. È proprio quell’ ‘Io…’ che mi fa pensare che Pirandello sapesse, con paura, che non avrebbe mai scritto il terzo atto, lasciando I giganti della montagna meravigliosamente compiuti nella perfetta incompiutezza umana
».
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