Paolo Conte, 80 anni con il passo da dandy: «Quando caddi dal cavallo a dondolo ascoltando Verdi»

Paolo Conte, 80 anni con il passo da dandy: «Quando caddi dal cavallo a dondolo ascoltando Verdi»
di Marco Molendini
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Domenica 29 Gennaio 2017, 10:26 - Ultimo aggiornamento: 31 Gennaio, 20:19
Ottanta e far finta di nulla. Anzi, Paolo Conte s'è quasi nascosto, una festa in una trattoria vicino casa, a Cortiglione d'Asti, con gli amici e gli amati musicisti, poi un po' di vacanza con la moglie Egle e, ora eccolo riemergere dopo la quarantena. Lo aspettano a febbraio alla Philarmonie di Parigi, la città che lo ha consacrato e che non ha mai smesso di amarlo. «Sento una valanga di giovinezza» scherza, parlando del compleanno ormai esorcizzato con lo spirito leggero del dandy.

Paolo, nascere il giorno della Befana che effetto ha avuto?
«Più che alla Befana mi piace affidarmi ai Re Magi, sono più esotici, internazionali».

Lei è nato nel 1937, in piena euforia swing ma con le nuvole della guerra che già coprivano l'Europa. Jazz e nostalgia hanno influenzato la sua vita?
«Mentre nascevo morivano Ravel, Gershwin, Bessie Smith. Quando ho cominciato a capire qualcosa, la guerra è arrivata, l'ho vissuta e ne sento ancora l'odore. Acre».

Il 900 è stato anche un secolo tremendo. Abbiamo motivo di rimpiangerlo?
«Artisticamente sì, con tutti i talenti che hanno animato musica, cinema, arte, fotografia e teatro. Io sono profondamente innamorato degli anni 20, i più ricchi di inventiva. Oggi siamo in un momento debole. Nella musica sono caduti gli elementi portanti, la melodia e l'armonia. Si fanno canzoni con due accordi. E c'è anche una debolezza letteraria».

Cent'anni fa la Original dixieland jass band registrava il primo disco di jazz. Con i siciliani Nick La Rocca e Tony Sbarbaro, ma anche Jack Papa Laine, Leon Roppolo, Eddie Lang, Joe Venuti e poi avanti negli anni con tutti gli altri, il contributo italiano al jazz è stato determinante?
«A giudicare dai cognomi sì, tanti oriundi italiani erano ottimi jazzisti. La linea nel tempo ci ha portato Frank Sinatra, Lennie Tristano, Joe Lovano e altri».

Suo padre Luigi, è stato il primo complice della sua estetica musicale?
«Sì, suonava benissimo il piano, nello stile di Rube Bloom, musicista che ha suonato anche con Bix Beiderbecke e del pianista Charlie Kunz. A casa avevamo quei dischi, allora proibiti dal regime, perché mio padre era riuscito ad acquistarli per strade clandestine».

Ricorda la sua prima emozione musicale?
«Si, una caduta dal cavallo a dondolo ascoltando alla radio Verdi e Johnny Dodds, il clarinettista di Louis Armstrong. Ho avuto subito un'attrazione molto feroce verso la musica. Ricordo il fascino di un trombone a coulisse che mia nonna nascondeva nell'armadio fra le lenzuola, perché ero stato rimandato in sei materie e mi era stato proibito suonarlo».

Il debutto come musicista è avvenuto col jazz.
«Nei primi anni 60 con un gruppo di Torino e Gianni Sanjust. Io ero il vibrafonista. Ora il vibrafono non lo suono più, è un mobile su cui appoggio le cose».

C'è voluto parecchio prima di debuttare come cantautore.
«È stato negli anni 70, al Club Tenco. Mai avrei pensato di esibirmi in quel modo. Non ho mai amato, però, la parola cantautore, ritengo che sia più indicata autore cantante o autore cantatore. Un po' come il termine francese chanteur à texte».

Azzurro è la sua canzone più nota. Anche la preferita?
«Forse la preferita è Gli Impermeabili».

Nessun rimpianto per il mestiere di avvocato o, magari, c'è anche un po' di sollievo per essere sfuggito al caos del nostro sistema giudiziario?
«La fuga, confesso, era premeditata da tempo».

Ogni tanto pensa di dire basta e piantarla coi concerti?
«Viaggiare mi stanca, ma con lo spirito del vecchio dilettante, so che una serata passata suonando con la mia cara orchestra e davanti ad un pubblico sensibile è una serata ben spesa».

Ricordo una sera il grido di uno spettatore: Paolo, Presidente della Repubblica. È come se il pubblico, ogni volta, la accogliesse come un manifesto di un'Italia di cui vantarsi.
«La cosa mi fa sorridere. Ma nel gusto profondo di quelle serate, oltre al pubblico c'è anche il rapporto con i miei musicisti, molti di loro sono con me da 30 anni. Fondamentalmente, però, sono un solitario, non amo la massa, vivo fuori dalle metropoli. Forse mi proteggo e, poi, molti amici storici non ci sono più».

Come canta in Madeleine con il tempo tutto vola via.
«Già. Ma adoro stare a casa: disegnare, inventare crittografie, fare la settimana enigmistica, anche se i rebus sono sempre più difficili, sintonizzarmi sul canale Classica di Sky, guardare il tennis che è un gran bel gioco».
Nell'ultimo disco, Amazing game, tutto strumentale, ha dato sfogo alla sua indole di arrangiatore meticoloso. Le è passata la voglia di inventare luoghi mitici come il Mocambo o sognare gli uomini scimmia di Sotto le stelle del jazz?
«Non percepisco la differenza tra musica strumentale e non. Le registrazioni di Amazing game sono pezzi recuperati, scritti per piéce teatrali, lasciati in quei cassetti dove giace ancora qualcosa che prima o poi, chissà, uscirà».

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