Totò in chiaroscuro tra segreti, tristezze e poche risate

Totò in chiaroscuro tra segreti, tristezze e poche risate
di Simona Orlando
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Lunedì 10 Aprile 2017, 23:38 - Ultimo aggiornamento: 16 Aprile, 22:02
Riscoperta. Suona strana questa parola usata a proposito di Totò, perché presuppone sia esistito un momento della nostra storia in cui è stato dimenticato o quantomeno sottovalutato. Eppure è andata proprio così, lo racconta bene il nuovo libro “Totò: Vita, opere e miracoli” (Fazi editore), scritto da Giancarlo Governi, giornalista e autore televisivo, fine conoscitore dell’argomento, che nelle trecento pagine non si limita a ripercorre una lunga carriera artistica ma la infarcisce di preziose testimonianze e aneddoti inediti, mettendo a punto una biografia accurata e definitiva.

C’è tutto. Totò sul set, quando prendeva il caffè di rito con la troupe, domandava alla sua spalla e aiuto-regista Mario Castellani quale scena c’era da fare, la leggeva, chiedeva "il lapis", ne dettava una totalmente diversa, e poi ne girava una terza che non aveva a che fare né con la prima né con la seconda. Si presentava alle due del pomeriggio perché ‘al mattino non si può far ridere’ ma quel 13 aprile 1967 arrivò presto per interpretare un vecchio anarchico in “Il padre di famiglia. La prima scena era un funerale e quello vero ci sarebbe stato da lì a pochi giorni. Anzi, plurale, i funerali: a Roma, dove c’erano gli amici veri e i critici che gli avevano dato del guitto, qualunquista e di destra, a Napoli, Chiesa del Carmine, e un terzo davanti alla bara vuota, voluto dal capoguappo “Naso ’e cane” al rione Sanità, “dove ’o guaglione nascette”. Una scena surreale, che una risata gliel’avrebbe strappata.

Totò uno e centomila, mai nessuno. Nemmeno quando era piccolo e povero, cresciuto con la nonna che non parlava italiano, pessimo a scuola ma già spione di caratteri che poi avrebbe trasferito sul palcoscenico: il miope come il suo maestro alle elementari, l’operaio con la pagnotta ripiena di cicoria finito in “Napoli milionaria”. C’è la sua formazione, dal repertorio di Gustavo De Marco alle compagnie di scannati che giravano l’Italia sui camion, l’improvvisazione a partire dagli equivoci e dagli imbrogli, la costruzione del suo personaggio con pantaloni zompafosso e bombetta. Si direbbe una faccia unica data in dono dalla natura la sua, così asimmetrica, con il mento che tirava a destra e gli occhi rotanti come biglie, indipendenti uno dall’altro, invece lui la manipolò come creta: il naso storto grazie a un pugno e i continui esercizi allo specchio per sganciarsi la mascella. Così creò la sua maschera. Da Napoli a Roma, insieme ad altri artisti senza una lira che facevano sogni grandiosi temporeggiando su caffè lunghissimi.

Totò che parte per il servizio militare e sulla tradotta finge un attacco epilettico per farsi riformare. Totò socialista monarchico, politicamente confuso, di sicuro antifascista che aggirava le censure del MinCulPop e se la passò brutta quando fuori copione fece la caricatura di Hitler e dovette scappare dai tedeschi, mettendo in valigia innanzitutto salami e fagioli. Totò donnaiolo che chiedeva sempre un divano in camerino, per intrattenere le sue ammiratrici durante l‘intervallo, mentre i mariti stavano in platea. Mille amori occasionali e qualche donna importante nella sua vita, il tragico suicidio della sciantosa Liliana Castagnola, che contribuì ad incupire il carattere del Principe De Curtis, molto diverso, nel privato, da quello che era in pubblico. Diverso persino nella voce, nei capelli che fuori scena portava impomatati. Totò geloso, che arrivava a buttare borotalco davanti la porta per capire se in casa fosse stato ricevuto qualcuno in sua assenza. Totò che passava ore chiuso a studiare libri di araldica, lui, trovatello ossessionato dal titolo nobiliare, che rivendicava in ogni occasione e tribunale.

Totò e i colleghi, dai registi che dovevano dargli del lei all’incontro con Peppino, sottoposto a continue vessazioni per rendere più naturale il rapporto vittima-carnefice, al punto che De Filippo a fine giornata se ne andava senza salutare. E la sorpresa di una esistenza solitaria, poco mondana, dove l’unico attore che davvero frequentava era Aldo Fabrizi. Pasolini fu eccezionalmente ricevuto in casa, arrivò con Ninetto Davoli, indossavano jeans sdruciti e per tutto il tempo il Principe si preoccupò che gli sporcassero la tappezzeria. Che le cose andassero bene sul set, si capì perché passarono a darsi del tu.

Totò generoso che tornava a Santa Maria Antesaecula e di notte infilava diecimila lire sotto le porte dei “bassi” o dava laute mance a camerieri, facchini, sarte, per meritarsi il blasone. Totò che soffriva d’insonnia, prima per gli orari imposti dalla vita teatrale, poi, quasi cieco, per la paura del buio completo. Ma ogni volta che partiva il ciak, la vista tornava, era «un fatto nervoso» diceva.

Morì il 15 aprile e al funerale fece l’ultimo tutto esaurito. Ora che non c’era più, la critica poteva finalmente parlare bene di lui e di quelle che con disprezzo aveva definito le “totoate”. Non si sentiva infallibile, Totò. Il giorno dopo i debutti mandava a comprare i giornali e non trovava mai un aggettivo che lo confortasse. Gli rimproveravano di fare cose di terz’ordine, le solite bazzecole, quisquilie e pinzellacchere. Nemmeno la Magnani lo voleva accanto in “Risate di gioia”, pensava l’avrebbe sminuita, a lei fresca di Oscar. Il colpo di grazia fu proprio “Uccellacci e uccellini”, che scatenò quei dolorosi commenti, “finalmente”, ‘“a sua miglior interpretazione”, come se quello che aveva preceduto il film fosse stato tutto un fallimento. E lo confessò ad un amico: «Di tutto ciò che ho fatto salvo pochissimo».

Dalle pagine emerge un Totò storicizzato, nel contesto di un’Italia che considerava la comicità una qualità minore e di registi che parlavano il sinistrese e gli rimproveravano di non essere abbastanza impegnato, e un Totò che va oltre il suo tempo e il suo spazio, inventa un linguaggio corporeo, esaspera la realtà diventando macchietta, la ridicolizza quando anima la sua marionetta, arrangia un vocabolario tutto suo, smonta le parole e i loro significati, si abbandona ai tic, costringe tutti a partecipare all’illogico, e resta ineguagliato. Principe sì ma il suo tema di fondo è stato sempre lo stesso: «Io so a memoria la miseria. E la miseria è il copione della vera comicità». La miseria rende santi, sarà per questo che oggi, nella cappella gentilizia che si fece costruire, è venerato come San Gennaro e a centinaia gli chiedono la grazia. Agli atei, basta un grazie.
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