«Io, morto per dovere». La storia del poliziotto che ha scoperto la Terra dei fuochi raccontate in un libro e in una fiction con Beppe Fiorello

Beppe Fiorello con la moglie di Roberto Mancini Monika
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Sabato 13 Febbraio 2016, 11:33 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 14:11
«È stato un onore ridare vita a un grande uomo e rivelare a tutti una storia insabbiata che avrebbe potuto far luce sul più grande disastro ecologico del nostro paese». Giuseppe Fiorello racconta così la vicenda umana e professionale di Roberto Mancini, il poliziotto che già 20 anni fa aveva scoperto tutto del disastro ambientale nella Terra dei fuochi, l'area fra Napoli e Caserta inquinata dagli sversamenti dei rifiuti tossici.

Ora la sua storia - Mancini è morto il 30 aprile 2014, ucciso da un cancro - viene riscoperta grazie a un libro e a una fiction. Nel libro Io, morto per dovere di Luca Ferrari e Nello Trocchia con Monika Dobrowolska Mancini e prefazione di Giuseppe Fiorello (Chiarelettere, Milano 2016, pp. 168, 15 euro) si riportano alla luce, tessendo insieme con delicatezza le testimonianze dei colleghi e della famiglia - la moglie Monika, che ha collaborato alla stesura e la figlia Alessia, che aveva tredici anni quando il papà è morto - oltre dieci anni di lavoro alla Criminalpol e la voce stessa di Mancini. La fiction andrà in onda lunedì 15 e martedì 16 febbraio su Rai 1. Ecco un capitolo del libro.


Le ultime parole  *1
«PS-SS», «Camerata, basco nero, il tuo posto è al cimitero». Le molotov volavano nell’aria insieme ai lacrimogeni. Sembravano coriandoli, ma erano presagio di guerriglia urbana. Gli slogan mi rimbombavano nella testa con la forza di un martello pneumatico e quasi la fracassavano. Avevo diciotto anni e quella piazza, quel corteo, quelle facce le porto dentro come una cicatrice, una traccia indelebile, un tatuaggio sulla pelle. Avevo un foulard rosso per coprirmi bocca e naso per il fumo e per i gas. Al mio fianco c’erano i compagni del collettivo, al Liceo Augusto era numeroso e compatto. Quel giorno di corteo è un album fotografico scolpito nella mia mente che tiro fuori mentre combatto con le lenzuola di questo letto d’ospedale. Scuoto i piedi per disfarmene, ho caldo, ribolle tutto, ho come vampate. Vampate, saranno i fuochi del ricordo, quelli dell’inizio, della mia scelta. O, per dirla con meno poesia, saranno i trattamenti chemioterapici che mi mandano in delirio. Ho iniziato l’infusione di linfociti prelevati direttamente da mio fratello poche ore fa. La cosiddetta filiera corta, i linfociti a chilometro zero. Normali nausee e diarree, tutto procede per il meglio. Struttura, personale medico e paramedico al di sopra dei normali standard, buon livello di civiltà. Ma ora mi stacco e mi perdo nei piedi della sedia così torno in piazza.

Troppi anni fa, ma sembra ieri l’altro. Urlavamo forte, sfilavamo come a sfidare il mondo, noi da un lato, sodali, vicini, compagni e, dall’altro, gli sbirri, i celerini, i nemici. Quante volte ci chiedevamo perché ogni giorno ci toccasse trovarci avversari gli apparati dello Stato e, spesso, sfidare i fascisti in piazza. C’eravamo dati una spiegazione e, senza retorica, la sentivamo nostra. Vivevamo in continuità con le montagne dei partigiani. Loro erano i nostri eroi, miti, giganti. Lungo quel tracciato camminavamo noi, nani che miravano, sognavano, bramavano un mondo diverso. Noi concepivamo la rivoluzione come esito naturale. Noi eravamo dentro una missione, dentro una sfida collettiva, un indirizzo comune. Non ne uscivi, era la nostra vita, non una parte di essa.

Anche quel giorno finì con la carica di alleggerimento, manganellate e lacrimogeni per disperderci, la follia di qualche esaltato che, spesso, era il caporeparto e in quelle occasioni, per noi studenti, erano lacrime e sangue. Quel giorno fui «compagno» l’ultima volta, ma non avrei cambiato parte, restai dalla stessa anche quando indossai la divisa qualche anno dopo. Non ne avevo parlato con gli amici, non avevo detto nulla ai compagni del collettivo, sfidai l’ultima volta la strada. Mentre le urla si levavano, io mi estraniavo. Guardavo in faccia i poliziotti, quello che sarei stato, e indietro, volgevo lo sguardo per capire quello che ero stato. Eppure non mi parve distanza insormontabile. Persi lo sguardo nel vuoto, ascoltavo ogni rumore come se avessi udito uno sparo impetuoso, e tutto rimbombava. Ero sospeso tra il mio passato e il mio futuro.

Scelsi quel giorno, o forse anche prima. Poco importa. Io sarei diventato sbirro, poliziotto, infame, boia, ma lo avrei fatto a modo mio, senza perdere il mio battito, la mia anima, il mio cuore piantato a sinistra. Gli anni del liceo furono un sorriso, ma a mezza bocca. Mai sguaiato, mai scontato, sempre pieno, intenso, vissuto. Furono anni veloci, ma zampillavano. Stupendi. Acqua di sorgente. Puri. Sgorgava vita. E non li scordo, muoiono con me. Mi accompagnarono alla maturità e alla scelta di provarci. Sostenni il corso per entrare in polizia. Sarei stato poliziotto comunista, con la fondina a destra e «il manifesto» sotto un braccio. Controcorrente. Mia madre me lo ripeteva sempre: «Roberto, sei nato per farmi soffrire», ma mi voleva un bene smisurato. «Nato per farmi soffrire.» E aveva ragione, ma letteralmente ragione.

Io nacqui con le palle e anche qui l’espressione non è metaforica, ma solare realtà. Mia madre aveva le doglie, ma il dottore capì subito. «Il bimbo o la bimba nascerà al contrario, sta messo male. Il bozzo, come lo chiama lei, è la sua testa. Insomma, viene fuori in direzione opposta a quella naturale.» A scriverlo sembra di fregiarsi e, invece, fu dolore e travaglio. «Salviamo almeno la madre», così dottori e infermieri ripetevano, io rischiavo di non albeggiare, di non venire mai alla luce. Mia madre si sforzava, premeva, sudava, soffriva e spingeva. E in un attimo l’alba. «Ecco, è maschio, sono uscite le palline, forza, forza.» Incredibile a dirsi, nato con le palle rispetto al solito e normale travaglio. Quasi un presagio, un parto oracolare. Mia madre non smetteva di ricordarmelo.

Rimasi così controcorrente anche quando indossai la divisa. Roberto Mancini, uomo dello Stato. Arruolato e a disposizione. Avevo fatto quella scelta, sentita, dolorosa, ma mi piaceva troppo ed ero convinto di un’idea. Io ho deciso di entrare in polizia perché le istituzioni si combattono cambiandole dall’interno. Tutto è condensato nel giudizio di un mio superiore. Me lo lasciò qualche anno fa sulla scrivania. Il giorno dopo non l’avrei visto più, mi avrebbero spostato di nuovo. Era piazzato sotto il fermacarte. Io l’ho sempre tenuto sui coglioni quel superiore, ma devo ammettere che il commiato è azzeccato, centrato, sono io. Accesi la sigaretta, mi aggiustai i pantaloni, mi misi comodo e lessi: «Roberto Mancini. Affettuoso ma volutamente dominante. Riesce a miscelare interesse per la persona con comunicazioni professionali e di servizio. Giudizio centrale su una riconosciuta ed encomiata professionalità che ha scontato l’essere indisponente e con un carattere di merda che ha impedito la giusta collocazione». E ora una collocazione la tengo su un letto di ospedale con un tumore caino che mi fiacca l’anima.
 
*1  Questo testo integra alcuni pensieri scritti da Roberto Mancini nel 2013 con i ricordi dei famigliari e degli amici più cari.


 
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