@anderboz
Siccome la gerarchia delle notizie sui social network è sempre imprevedibile, nei giorni scorsi in rete una delle notizie romane più lette e discusse è stata la presunta chiusura della pasticceria Pompi a via Albalonga. Presunta perché poi si è saputo che non ci sarà nessuna chiusura, ma si trattava solo di «una provocazione» lanciata dai proprietari che hanno cercato di intimidire l’intero quartiere con la minaccia più terribile: arrivano «i cinesi». Invece questa volta i cinesi non arrivano, a quanto pare la pasticceria rimarrà lì, anche se i suoi clienti saranno costretti a subire la prepotenza del Comune che da un po’ di tempo ha deciso di non consentire più i parcheggi in terza fila, anteponendo esigenze in fondo futili come il passaggio di autobus e ambulanze ai diritti di chi ha l’urgenza di ingoiare un tiramisù.
Come sempre accade, il dibattito si è subito trasformato in derby, con il confronto tra due schieramenti contrapposti: quelli che trovano il tiramisù di Pompi buonissimo, e quelli che invece lo considerano una ciofèca. I primi si appellano al valore della tradizione, anche se in questo caso la tradizione è piuttosto recente (il bar c'è dal 1960, la ricetta del tiramisù non esisteva prima degli anni Settanta). I secondi ribattono che quel dolce è ormai un prodotto industriale venduto in almeno altri quattro locali della stessa catena, e soprattutto sostengono che – come ha scritto Massimiliano Coccia su Facebook – «lo fa meglio mi nonna». L’argomento è definitivo: il tiramisù di nonna non può metterlo in discussione nessuno, neanche il signor Pompi.
pietro.piovani@ilmessaggero.it