C'è chi c'ha, c'è chi cià e c'è pure chi ci ha

di Pietro Piovani
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Mercoledì 2 Ottobre 2013, 23:31 - Ultimo aggiornamento: 3 Ottobre, 12:47
Ti morto il prof d'italiano? C'ho non cio analfabeta

@IXgennaio1900



Un tempo per gli italiani alfabetizzati le lingue erano due: quella che si parla e quella che si scrive. Poi con l'arrivo di internet è nata una terza lingua, un incrocio tra lo scritto e il parlato a cui facciamo ricorso nelle email e soprattutto sui social network. Ma se in passato certe espressioni orali non erano mai riuscite a trovare cittadinanza sulla pagina di carta un motivo c'era. Prendiamo la particella “ci” che i romani (e non solo loro) nelle loro conversazioni quotidiane accostano abitualmente al verbo avere. A dirsi è facile, ma quando si tratta di scrivere come si fa? La forma preferita dai frequentatori di Facebook e Twitter è: “io c'ho fame”, “lui c'ha sete”, “noi c'abbiamo sonno”. Chi adotta una grafia diversa spesso viene redarguito. Eppure il “c'ho” è sconsigliato da quasi tutti gli italianisti: «È sbagliato scrivere “c'ho”, che corrisponderebbe a una pronuncia “ko”» avverte la grammatica di Luca Serianni. Bocciata anche la grafia “ci ho”, che ugualmente non rende l'elisione della i. Esiste poi l’opzione “ciò”, più corretta dal punto di vista fonetico, ma con il difetto di essere equivocabile con il “ciò” pronome dimostrativo. Non ci fornisce una risposta definitiva neanche l’esempio dei grandi autori che nei loro libri hanno usato il romanesco: Gadda scriveva “ciò”, Pasolini e Moravia “c'ho”, prima di loro il Belli aveva inventato la forma “ci'ai”, “ci’avevo”. In attesa di trovare una soluzione accettata da tutti, l'unica regola da seguire è quella della tolleranza: accettiamo le grafie altrui e buttiamo via la matita rossa e blu. Tanto su Twitter il rosso e il blu non si vedono.



pietro.piovani@ilmessaggero.it