Maddalena Urbani, la testimonianza dell'operaio: «L'ho soccorsa come nei film»

La 21enne morì per una overdose di metadone a marzo 2021. Il suo pusher e l’amica sono imputati per omicidio volontario

Maddalena Urbani, la testimonianza dell'operaio: «L'ho soccorsa come nei film»
di Valeria Di Corrado
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Mercoledì 6 Luglio 2022, 00:30

Si arricchisce di particolari sempre più desolanti la tragica vicenda che ha portato alla morte di Maddalena Urbani, la figlia del medico-eroe Carlo Urbani che per primo nel 2003 isolò il virus della Sars. La 21enne è deceduta per un’overdose di metadone il 27 marzo 2021 nell’abitazione, in zona Cassia, dove il pusher siriano Abdulaziz Rajab stava scontando i domiciliari. Quest’ultimo è imputato per omicidio volontario con dolo eventuale, in concorso con l’amica della vittima, Kaoula El Haouzi. Era consapevole che Maddalena era in overdose e rischiava di morire. Ma aveva preferito non chiamare l’ambulanza, sapendo che sarebbe finito sicuramente in galera. Il 61enne, quindi, per 15 ore ha ospitato e vegliato la ragazza senza chiamare i soccorsi del 118. Per il giudice delle indagini preliminari Nicoló Marino, che un anno fa ne gli aveva notificato una nuova misura cautelare, non è stata dunque una semplice omissione di soccorso: «Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo». 

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LA TESTIMONIANZA

Nell’udienza di ieri, davanti alla Corte d’assise di Roma, è stato sentito come testimone Adrian Nicuta, un operaio romeno di 38 anni (amico del siriano), che quel giorno era intervenuto in soccorso di Maddalena per rianimarla. «Rajab mi ha chiamato sul cellulare - ha ricordato davanti ai sei giudici popolari e i due togati - Era molto agitato, nel panico, perché una ragazza che era a casa sua era svenuta.

Mi ha detto che aveva preso il metadone di nascosto mentre lui cucinava e lo aveva fatto perché aveva interrotto una relazione. Io sono andato da lui e ho trovato la ragazza sdraiata per terra, c’era anche una sua amica, allora l’ho messa sul letto e le ho fatto la respirazione bocca a bocca e il massaggio cardiaco, come avevo visto fare nelle serie in tv e come avevo imparato anche in un mini corso sul primo soccorso quando lavoravo in cantiere».

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«L’HO RESUSCITATA»

«Rajab era preso dal panico, non sapeva chi consultare perché era agli arresti domiciliari e non poteva ricevere persone - ha aggiunto l’operaio nella sua testimonianza - La ragazza, dopo la manovra che le aveva praticato, si era ripresa: l’ho “resuscitata”. Le abbiamo dato acqua e limone e lei si è messa seduta sul letto». «Dopo due ore ho chiamato Rajab per sapere come stava e lui mi ha riferito che stava bene e respirava. Ad entrambi ho detto di chiamare l’ambulanza se fosse stata di nuovo male. Poi il giorno dopo ho sentito dai notiziari quello che era successo», ha concluso il 38enne romeno. 
Nell’udienza precedente i periti hanno riferito in aula che la morte della ragazza si sarebbe potuta evitare se i soccorsi fossero stati allertati in tempo. Invece il pusher siriano, pur di non chiamare il 118, si era rivolto anche a un altro amico: un giovane tossicodipendente che aveva abbandonato gli studi in Medicina dopo pochi esami. Questi si era presentato in casa con una siringa e del Naloxone, il farmaco usato per bloccare gli effetti degli oppioidi. Rajab è stato definito dal pm Pietro Pollidori, che ha coordinato le indagine della Squadra Mobile, come «un soggetto con personalità molto negativa e spregiudicata che aveva cercato di fornire un quadro della vicenda assolutamente non veritiera».

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