Ucciso dal poliziotto durante inseguimento, la fidanzata: era violento ma l'amavo

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Mercoledì 11 Giugno 2014, 18:45
Ce ne facevamo tante, pizzichi, schiaffi. Per c'era tanto sentimento. Ci volevamo bene. Adesso non serve dirlo. Parlo per amore di verit perch Dino era un uomo grande e grosso, ma anche un bambino». Così, testimoniando in tribunale Giulia Purpi, la 43enne compagna di Bernardino Budroni, detto Dino, l'uomo morto per un colpo di pistola esploso da un poliziotto all'alba del 30 luglio del 2011 durante un inseguimento sul Grande raccordo anulare. Per quella morte è imputato l'agente di polizia che sparò, Michele Paone, accusato di omicidio colposo con l'aggravante dell'eccesso colposo nell'uso legittimo di armi.



Davanti al giudice monocratico del tribunale, Roberto Polella, la donna ha raccontato quel 29 luglio, «iniziato nel pomeriggio con un sms da niente e poi finito in Questura». Un rapporto complicato quello tra la Purpi e Budroni: dopo un periodo di convivenza, la relazione era continuata vivendo nelle rispettive abitazioni tra alti e bassi. «Non ce la facevo più - ha raccontato la donna - Lui ad un certo punto cambiava, era una cosa strana: quando stavamo giocando, all'improvviso mi colpiva con uno schiaffo, io avevo cominciato ad avere paura. Quella sera mi sembrò un pazzo. Mi mandava messaggi in continuazione, mi scriveva: 'Vengo lì e ti ammazzo'», poi andò davanti la casa della donna al Tuscolano. «Danneggiò il portone del palazzo - ha detto la Purpi - e poi anche quello dell'appartamento dove abitavo. Allora chiamai disperata i miei genitori e dopo un pò loro arrivarono. Qualcuno chiamò la polizia e mi sono trovata casa invasa di poliziotti. Più tardi sono andata in commissariato ma non ho voluto fare la denuncia. Le parole pesano».



Alle sei poi del mattino successivo la donna ricevette una telefonata della polizia: «Mi chiamarono e mi dissero che l'avevano preso. Più tardi ho capito che era morto. Ho conservato tutto di Dino: filmati, messaggi, sms. È una cosa che mi fa star male. Questo cellulare è tre anni che non lo tocco - ha detto mostrando l'apparecchio - lo voglio depositare qui alla vostra attenzione. Parlo perché la verità rende liberi». Al termine dell'udienza il telefonino è stato acquisito dal tribunale.