Maggioritario addio/La legislatura che ha cambiato le leadership

di Alessandro Campi
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Venerdì 29 Dicembre 2017, 00:05
Vista con gli occhi del cittadino quella che si è chiusa formalmente ieri è stata una legislatura controversa, caotica e difficile. Qualcuno dice persino inutile e da dimenticare. Ma dal punto di vista dell’osservatore e dell’analista è stata - ammettiamolo senza ipocrisie - stimolante per quanto divisiva.

In questi cinque anni politicamente è infatti successo di tutto. Abbiamo avuto due presidenti della Repubblica (Napolitano, eletto eccezionalmente per un secondo mandato ed eccezionalmente dimessosi anzitempo, e Mattarella) e tre presidenti del Consiglio (Letta, Renzi e Gentiloni). Abbiamo assistito, elencando le cose un po’ alla rinfusa, alla clamorosa bocciatura di Romano Prodi nella corsa al Colle (per fuoco amico rimasto anonimo). Al mesto declino di Pierluigi Bersani.

All’ascesa di Matteo Renzi prima alla guida del Pd e poi alla guida del governo. All’estromissione di Berlusconi dal Senato e alla sua inopinata resurrezione politica. All’ascesa dell’altro Matteo: Salvini, capo di una Lega divenuta da padano-nordista che era a nazional-nazionalista.

Al crescere e radicarsi di un non-partito quale il M5S: entrato in Parlamento con l’idea di scardinarlo e oggi pronto a stringere accordi in vista di un esecutivo guidato da Luigi Di Maio. In questo quinquennio si sono dovute affrontare emergenze continue, interne e internazionali: dai fallimenti bancari agli sbarchi d’immigrati sulle nostre coste. In Parlamento si sono registrati 546 cambi di casacca (un record mondiale).

Abbiamo avuto la battaglia all’ultimo sangue sul referendum costituzionale e quella, più modesta, sull’autonomismo voluta da Lombardia e Veneto. C’è stata una dolorosa scissione a sinistra del Pd. E’ imploso il partito di Alfano nato dopo la sua uscita da Forza Italia. Abbiamo discusso e litigato nientemeno che sulle spoglie di Vittorio Emanuele III e sul fantasma di un fascismo riemergente. Ci siamo dati una nuova (e bruttina) legge elettorale dopo che la Corte costituzionale aveva bocciato quelle (ancora più brutte) prima vigenti. E molto altro probabilmente stiamo dimenticando…

Si dirà che tutto ciò riflette uno stato confusionale tipicamente italico. Ma la verità, per non scadere sempre nell’autocommiserazione, è un’altra: quel che da noi si è espresso in forme parossistiche riflette difficoltà e contraddizioni che sono oggi tipiche di tutte le grandi democrazie occidentali. Non sembri una consolazione, ma l’Italia in questo quinquennio si è confermata – come spesso nella sua storia – uno straordinario laboratorio politico. Peccato solo che le formule originali che noi talvolta inventiamo siano poi gli altri a praticarle con successo: cos’altro è il macronismo se non la realizzazione in Francia di ciò che Renzi aveva immaginato per l’Italia? 
Ma questa legislatura non è stata solo vivace e contradditoria. Ora che è terminata s’intravvede anche la sua ratio politica, il senso storico e istituzionale che l’ha resa tutt’altro che infruttuosa o inutile. E che si riassumono non in questa o quella legge approvata, ma nel passaggio, inevitabilmente accidentato, da un modello politico sognato e rivelatosi fallimentare (come dimostrano la repulsa per la politica diffusasi tra i cittadini e la crescita dell’astensionismo elettorale) ad un altro che però è ancora tutto da costruire. 

Una fase della nostra storia è insomma finita: quella del maggioritario e della democrazia bipolare, del decisionismo di governo, del leaderismo carismatico, del populismo mediatico, delle grandi riforme (peraltro più annunciate e promesse che concretamente attuate) e delle grandi alleanze politicamente omogenee. E ne è iniziata, quasi per reazione, una segnata, piaccia o meno, dal ritorno alla frammentazione partitica e alla fisiologia del parlamentarismo (nel senso che sono i parlamentari a creare i governi, non gli elettori), dalle intese e dai compromessi tra forze politiche, da una cultura di governo basata sulla mediazione, dal raffreddamento propagandistico, dal proporzionalismo come formula per misurare il consenso elettorale e costruire la rappresentanza politica. 

In questa chiave, l’uomo-simbolo di questa legislatura non può che essere considerato (e anche questa è stata una sorpresa, viste le premesse da cui eravamo partiti) Paolo Gentiloni: l’uomo delle cose possibili, del realismo necessario, delle riforme concordate, del comando senza carisma, delle piccole intese, del fare senza dire. Scelto per far decantare una situazione oltremodo complicata, dopo la sconfitta di Renzi al referendum, Gentiloni s’è inventato quasi a sorpresa uno stile di governo che non solo gli ha conquistato un crescente consenso nel Paese, ma che appare a misura di quella che probabilmente sarà, politicamente parlando, l’Italia da qui ai prossimi anni.
Con i rapporti di forza che si sono creati nella società e tra i partiti, e che il nuovo sistema di voto rifletterà fedelmente nel prossimo Parlamento, già sappiamo infatti che a contare non saranno i programmi elettorali annunciati prima del voto, ma i programmi di governo concordati, magari dopo lunghe trattative, dopo la chiusura delle urne. E basati inevitabilmente su compromessi e reciproche concessioni. 

Nella prossima legislatura, sondaggi alla mano, nessuno si aspetta maggioranze parlamentari politicamente omogenee e numericamente autosufficienti. D’altro canto di leader capaci di aggregare e di trascinare le folle non se ne vede l’ombra. “Non è tempo di rottamazioni, slogan e leadership solitarie”: parole recenti del ministro Carlo Calenda riferite al centrosinistra ma in realtà valevoli per l’intero spettro politico. Quella che ci aspetta è una politica che “limiti per quanto possibile la diffusione di paure, la promozione di illusioni, il dilettantismo”, come ha detto ieri proprio Gentiloni durante la conferenza stampa che ha preceduto lo scioglimento del Parlamento. 
Naturalmente non è detto che il gentilonismo continuerà, dopo il voto di primavera, col suo inventore. Ma quel che ci aspetta sembra chiaro: una lunga parentesi politica in cui dovranno giocoforza prevalere il pragmatismo, la capacità di dialogo e il riformismo dei piccoli passi. Qualcuno lo definisce, sulle ceneri della Seconda Repubblica, un infelice ritorno al passato. Ma in un Paese malato di velleitarismo e dimostratosi nel recente passato sin troppo sensibile alle sirene della demagogia, nel quale la politica ha bisogno di riconquistare la fiducia di milioni di cittadini delusi, non è da escludere che un bel bagno di modestia, realtà e buon senso sia esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.
 
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