Quattro falle (da riparare) nella barca del premier

di Alessandro Campi
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Venerdì 24 Luglio 2015, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 00:11
Dopo l’esito delle ultime elezioni amministrative - mal digerite dal vertice del Partito democratico - ci si aspettava un segnale di dinamismo da parte di Renzi e del suo governo, che per settimane sono parsi come bloccati dal risultato negativo delle urne. Quel segnale è puntualmente arrivato. Con la clamorosa promessa di una rivoluzione fiscale che in pochi anni dovrebbe consentire agli italiani di pagare meno tasse.

Renzi insomma ha ripreso a correre, ammesso si sia mai fermato. E chi gli fa notare che forse va un po’ troppo veloce, che procede a testa bassa senza curarsi degli eventuali ostacoli, è sicuro che si beccherà l’epiteto di menagramo. Senza distinzioni tra chi lo critica per partito preso e chi vorrebbe semplicemente stimolarlo a fare meglio. Certo, di ostacoli Renzi ne ha sicuramente dovuti affrontare molti in quest’anno e mezzo: le resistenze delle corporazioni sociali, le lentezze della burocrazia pubblica, i malumori strumentali della minoranza del suo stesso partito[FORZA-RIENTR], la tendenza degli italiani a lagnarsi sempre, la ragionieristica miopia di Bruxelles, l’intrinseca fragilità della sua maggioranza al Senato. Ma accanto a questi oggettivi ostacoli Renzi forse dovrebbe anche considerare le debolezze, le difficoltà e i ritardi imputabili alle sue scelte e al suo modo di fare. Se il governo dimostra, secondo molti osservatori, un certo affanno ciò forse dipende dall’aver sottovalutato o mal affrontato alcuni problemi. E magari anche dall’aver esasperato uno stile politico - sempre polemico e all’attacco, sempre alla ricerca dello slogan azzeccato e della trovata mediatica - più adatto ad affrontare una campagna elettorale che a reggere le sorti di un Paese malandato.



Proviamo dunque a fare un piccolo elenco di ciò che non va, partendo dal cattivo modo con cui Renzi ha gestito la sua avventura in Europa. Era convinto che sarebbe stato facile modificarne certe procedure decisionali eccessivamente rigide e troppo dipendenti dalla volontà di un nucleo ristretto di Stati. Ma le cose sono andate diversamente, dimostrazione che i rapporti di forza sono impermeabili alle speranze e alle belle parole. Per aver assunto una posizione dapprima defilata, poi troppo schiacciata su quella della Merkel, abbiamo avuto un ruolo marginale nella trattativa tra la Grecia e i suoi creditori internazionali, sebbene fossimo un Paese tra i più esposti finanziariamente. Sul tema cruciale dell’immigrazione, dopo settimane di trattative siamo riusciti a strappare un accordo al ribasso sui ricollocamenti tra i diversi Stati europei dei profughi sbarcati negli ultimi due anni in Italia e in Grecia. Il minimo che si possa dire è che il nostro potere negoziale all’interno dell’Ue è decisamente basso. A Renzi, che ancora vanta quel 40% ottenuto dal Pd alle elezioni europee, evidentemente è servito poco essere il leader del più grande partito socialista europeo.



A proposito del Pd, la difficoltà della segreteria nazionale a gestire situazioni come quella di Roma con Marino, di Milano con Pisapia, della Campania con De Luca e della Sicilia con Crocetta è stata spesso liquidata come un affare interno. In realtà si tratta di un problema politico generale che rischia di riverberarsi negativamente sul governo centrale. Quattro aree strategiche del Paese, da Nord a Sud, vivono una fase di grande incertezza e di fibrillazioni, anche a causa della prudenza - al limite dell’indecisione - con la quale Renzi e i suoi uomini stanno affrontando questi diversi dossier locali. Ma un governo riformatore difficilmente può realizzare i suoi obiettivi se nelle periferie nevralgiche d’Italia regna il caos istituzionale. Cosa si aspetta ad intervenire per riportare ordine nel Pd e dunque nella politica nazionale?



Questo governo ha messo molta carne al fuoco, ha annunciato provvedimenti in ogni campo. Ma continua a non occuparsi, come sarebbe necessario, di giustizia. Mostra una cautela sulla materia che sembra nascondere un timore. Eppure la cronaca di questi giorni è lì a ricordarci come la Terza Repubblica che Renzi ha in mente implichi necessariamente il taglio del legame patologico che si è creato in Italia, nell'arco di vent’anni, tra politica, magistratura e sistema dell’informazione. La solerzia dimostrata in materia di lotta alla corruzione, pagando peraltro un prezzo alla retorica antipolitica dilagante, andrebbe forse mostrata anche nel riformare altri segmenti dell’universo della giustizia.



Siamo un Paese nel quale basta ancora un’intercettazione abilmente manipolata per decidere di una carriera politica, delle sorti di un governo o per mettere in discussione gli equilibri decisi dagli elettori. Lo stesso Renzi ne ha fatto di recente un’amara esperienza. Sarà per questo che si tiene lontano da una materia così scottante?



Suscita infine sempre più perplessità questo modo di governare che Renzi ha scelto con l’idea di dover sempre spiazzare, incantare, rilanciare e stupire. Era lo stile tipico di Berlusconi, tutto annunci e miracoli, ma si è visto come è andata a finire: oltre a realizzare poco o nulla ha creato le basi psicologiche di massa che hanno alimentato, sul filo della rabbia e della protesta, l’ascesa elettorale di Grillo e di Salvini. Quanto c’è di propaganda e quanto di realtà nell’annuncio renziano che in tre-quattro anni sarà ridotto di 45 miliardi il carico fiscale degli italiani? Per realizzare una manovra di questo tipo difficilmente si può fare affidamento su un allentamento dei vincoli europei in materia di deficit pubblico. Si può forse sperare su una ripresa dell’economia e sull’inizio di un nuovo ciclo espansivo, ma dovrebbe far riflettere la difficoltà dell’Italia a ripartire in presenza di condizioni dell’economia mondiale quanto mai vantaggiose: prezzo del petrolio ai minimi, bassi tassi di interesse, ecc. Ciò che servirebbe per abbassare le tasse è invece una drastica riduzione della spesa pubblica. Ma è l’unica riforma veramente strutturale che anche Renzi ha paura di fare per timore di perdere consensi. Farlo mestamente notare merita che si venga liquidati alla stregua di un gufo?