I nuovi equilibri/La geografia di Strasburgo riscritta dopo l’effetto Trump

di Marco Gervasoni
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Mercoledì 18 Gennaio 2017, 00:05
Per quelle strane coincidenze della storia, il giorno in cui la premier Theresa May ha annunciato «l’uscita dura» dalla Ue, una sua istituzione, il Parlamento, ha dato prova di vitalità. Per la prima volta dopo molti anni, infatti, l’assemblea di Bruxelles, la sola istanza elettiva europea, e certamente la più rappresentativa, si è divisa in un confronto politico alla luce del sole, fatto di programmi e di proposte alternative. Niente di peggio, infatti, dello stantio consociativismo tra popolari e socialisti, i due principali gruppi nel parlamento, che si sono quasi sempre spartiti le cariche principali nel timore di introdurre sangue e vita in un organismo isterilito dalla tecnocrazia e dalla burocrazia. 

Il merito di questa rottura tra popolari e socialisti va sicuramente a questi ultimi e a Gianni Pittella in modo particolare. Rifiutando l’accordo propostogli dal Ppe, egli pensava certamente di possedere delle chance di vittoria, aggregando ai voti del suo gruppo quelli delle sinistre e dei liberali, secondo uno schema di centro-sinistra. Non ha però fatto i conti con il gruppo dei liberali dell’Alde, fondamentale per la vittoria di Tajani, molto più eterogeneo di quanto si creda, come si è visto con l’abortito tentativo di alleanza con i grillini, e soprattutto non sempre ascrivibile ai progressisti: al suo interno vivono infatti partiti che nei loro Paesi guidano o fanno parte di coalizioni conservatrici.

Con tutte le cariche principali ora nelle mani di esponenti del Ppe (Juncker, Tusk, Tajani), Pittella ha indubbiamente indebolito i socialisti, che scaricheranno le loro tensioni nei prossimi mesi attorno alla riconferma di Tusk alla guida del Consiglio d’Europa. Da questo punto di vista quella di ieri è quindi una vittoria di Merkel, il cui partito ha un ruolo egemonico all’interno del Ppe, e senza il cui assenso non sarebbe neppure nata una candidatura Tajani. Il successo dell’esponente di Forza Italia rappresenta tuttavia un elemento molto positivo per il nostro paese. E’ infatti la prima volta dal 1979, cioè da quando il parlamento europeo è elettivo, che un italiano ne arriva alla guida. Fosse solo questo, tuttavia, non sarebbe molto.

L’elezione di Tajani è importante per un altra ragione: nello scenario futuro, tra lo scarso trasporto di Trump per la Ue, la «Brexit integrale» e un’incertezza degli scenari politici italiani, v’è per il nostro paese un rischio reale di isolamento se non di emarginazione, che ora invece pare, se non scongiurato, decisamente attenuato. Inoltre Tajani è un «berlusconiano», appartenenza rimproveratagli dai suoi avversari ma che invece gli farà aggio, perché si tratta di una cultura politica e di una leadership tutt’altro che ortodossamente merkeliane, e i cui i punti in comune con l’avventura di Trump non sono scarsi: un elemento che potrà aiutare nel rapporto, necessario e indispensabile, con Washington.

Infine, la presenza di un esponente di Forza Italia alla guida di uno dei vertici della Ue avrà effetti anche interni: Tajani non è stato votato dai leghisti, alleati del suo partito in realtà regionali e locali importanti, nonché partner principale di quell’alleanza che ancora prende il nome di centro-destra.
Difficile quindi che Forza Italia, con uno suo dirigente alla guida del parlamento Ue, possa ora adottare programmi e linguaggi «antieuro» invece al centro del messaggio leghista. Inevitabilmente un passo in avanti verso la rottura del centro-destra così come lo abbiamo conosciuto. E siccome anche in politica il vuoto non esiste, un passo in più verso la grande coalizione. Una strada che forse sarà necessario percorrere. 

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