​Salta il tabù di Al Qaeda: il mitra anche alle donne

di Lucetta Scaraffia
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Sabato 10 Gennaio 2015, 23:14 - Ultimo aggiornamento: 23:54
Il suo volto semplice, senza trucco, con i capelli sciolti sulle spalle, l’aria di una ragazza qualsiasi, è ora diffuso in tutto il mondo, con l’avvertenza della polizia francese: si tratta di una pericolosa terrorista, gira armata e sa sparare.



Si tratta di Hayat Boumedienne, una ventiseienne nata in Francia ma di origine nordafricana, che negli ultimi anni, dopo aver conosciuto Amedy Coulibaly, ha abbandonato il suo lavoro di cassiera e ha cominciato a girare velata. Già la scelta di sposare Amedy solo con il rito religioso musulmano rivela la sua presa di distanza dallo Stato francese, il Paese dove è nata. In seguito, insieme al marito, ha frequentato un noto fondamentalista islamico a domicilio obbligato nella campagna francese, nello stesso luogo dove alcune foto scattate dalla coppia rivelano che entrambi hanno ricevuto una preparazione militare da terroristi. Nelle immagini la giovane, completamente velata, spara e impara a usare la balestra, esattamente come Amedy.



Non sappiamo nulla delle motivazioni che possono avere portato una ragazza proveniente da una famiglia di emigrati in apparenza normale, che lavorava come qualsiasi ragazza francese, ad abbracciare la causa fondamentalista. Sappiamo solo che proprio dalla seconda generazione di immigrati – cioè da quelli nati in Francia – proviene il numero più alto di fondamentalisti. Mentre i genitori, dopo l’emigrazione, avevano cercato di inserirsi nella società francese secolarizzandosi, i loro figli si riallacciano all’identità originaria, ricominciano a fare il ramadan, ad andare in moschea. E molte donne si velano e scelgono la sottomissione al maschio, dopo essere vissute come cittadine francesi qualsiasi.



Forse proprio in questa ambiguità che segna una giovane come Hayat possiamo trovare le radici della contraddizione che lei rappresenta, sembra per la prima volta nel mondo di Al Qaeda: quella di una donna che si vela ma che, al tempo stesso, è pronta a giocare un ruolo di primo piano come terrorista, imbracciando le armi.



Altre donne in precedenza hanno partecipato agli attentati come “bombe umane”, facendosi saltare in aria con le cinture esplosive, soprattutto nella seconda fase del terrorismo palestinese o in quello ceceno, quando i controlli nei confronti di possibili attentatori non le avevano ancora individuate come possibili terroriste. Ed è di ieri la notizia di una povera bambina di dieci anni trasformata da Boko Haram in una bomba umana. Ma si tratta di un ruolo in fondo passivo – quasi sempre il detonatore per lo scoppio veniva azionato da altri, che stavano al sicuro – ed esse erano poco più che esecutrici pedisseque, e forse costrette, di decisioni prese da altri.



Il poco che sappiamo di Hayat fa invece sospettare che per lei si tratti di altro: la preparazione all’uso delle armi, il coinvolgimento ideologico con Djamel Beghal, l’islamista noto anche con il nome di Abou Hamza, condannato per terrorismo e proselitismo a favore degli estremisti takfir, sono gli stessi che segnano l’ingresso nel movimento armato fondamentalista sia del marito sia dei due fratelli Kouachi, i due attentatori del giornale satirico. Altre informazioni, tra le pochissime che la polizia lascia filtrare – del resto la terrorista è ancora in fuga – la vedrebbero invece rientrare in un comportamento più tradizionale: risultano dal suo telefonino oltre cinquecento telefonate scambiate l’anno scorso con Izzana Hamyd, la moglie di Chérif Kouachi. Qui infatti la rete dei contatti è limitata al mondo femminile, anche se certo implicato: Hamyd è stata infatti arrestata.



Hayat – che potrebbe essere in Siria, ma potrebbe anche avere partecipato sia all’omicidio della poliziotta di Montrouge sia all’assalto del supermercato kosher, dileguandosi poi nel nulla – appare molto più simile alle terroriste occidentali, alle donne diventate soldati combattenti o poliziotte nelle nostre società emancipate, che non alle schiere di donne velate, tenute lontane da ogni attività che non sia separata e femminile, da ogni forma di cultura, come finora abbiamo visto tra i fondamentalisti.



La vicenda di Hayat ci dà molto da riflettere: la sua fuga armata è stata la rivendicazione egualitaria – almeno nella responsabilità come terrorista – di una donna che, pur velata, aveva frequentato le scuole francesi, aveva probabilmente votato e guidato l’auto, raggiunto una sua indipendenza con il lavoro? Oppure è stata solo un’altra forma di obbedienza – sia pure estrema – all’uomo che aveva sposato? Qualunque sia la risposta, dobbiamo riconoscere tristemente che sembra questa l’unica forma di emancipazione concessa dal fondamentalismo islamico alle donne.