Il senso del 4 novembre/ Perché non è retorico ricordare la Vittoria

di Marco Gervasoni
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Sabato 5 Novembre 2016, 00:05

Tutti ci siamo stretti ieri nel ricordo degli «angeli del fango» dell’alluvione di Firenze. Pochi si sono accorti però, lo stesso giorno, della festa delle Forze Armate. La quale altro non è se non l’apoteosi della vittoria italiana nella prima guerra mondiale: il 4 novembre 1918, data della firma dell’armistizio di Villa Giusti. Qualcuno potrebbe concludere che ci sentiamo a nostro agio nel celebrare le disgrazie invece dei trionfi. Sarebbe un’affermazione riduttiva: è vero però che, come Paese, manifestiamo un problema con la memoria della Grande guerra.
Si capisce che tedeschi ed austriaci non amino commemorare una sconfitta, ma non così i Paesi vittoriosi. L’11 novembre, anniversario della cessazione delle ostilità, è giorno festivo in Francia; cade nella stessa data il Remembrance day, non lavorativo solo in Canada ma comunque molto sentito nel Regno Unito, in Australia e pure negli Usa, nonostante essi abbiano partecipato al primo conflitto mondiale per un periodo breve. Da noi invece, soprattutto negli ultimi decenni, si ricorda con pudore e con vergogna la partecipazione dell’Italia in guerra, quasi scusandosi per aver vinto, come è capitato di sentire lo scorso anno, in occasione del centenario dell’ingresso nel conflitto. A noi, lo confessiamo senza diplomazie, pare assurdo. La Grande guerra fu certo una carneficina, ma l’Italia non poteva sottrarsi.

Una volta nella mischia, gli italiani, figli di un Paese povero, diviso, di recente formazione, con un esercito ben lontano dai possenti alleati e nemici, si batterono con vigore, coraggio e dignità. Egualmente, i governi e i poteri pubblici si condussero in modo non difforme da quelli di Parigi e di Londra. Fu una guerra anche di popolo, la sola, bisogna ricordarlo, che l’Italia vinse veramente.

Ma allora perché questo oblio? Ha certo pesato il fascismo, che fece dell’evocazione del primo conflitto mondiale un mito fondamentale del regime. Eppure, ancora per qualche decennio dopo la caduta di Mussolini, la rimembranza e l’orgoglio della vittoria sono rimasti: del resto il 4 novembre come giorno festivo è stato abolito solo nel 1977, per via dell’austerità. Alla memoria della guerra ha assestato però un colpo violento il movimento del sessantotto (da noi durato un po’ troppo a lungo) per il quale essa sarebbe stata voluta dalla «borghesia» contro il «popolo» italiano, da governi «reazionari» che, nel gestire il Paese, quasi avrebbero anticipato il fascismo. Un’interpretazione ideologizzata oggi fortunatamente defunta ma servita per cancellare dalla memoria le tracce della guerra come evento tragico sì, ma capace di contribuire alla crescita collettiva della nazione.

Il mito di Vittorio Veneto non è stato particolarmente coltivato neppure dai cattolici: il papa di allora, Benedetto XV, aveva condannato «l’inutile strage», anche per i buoni rapporti del Vaticano con la cattolicissima Austria. E anche ieri, alcune associazioni e organi di stampa di quel mondo hanno evocato il 4 novembre come una «giornata di lutto» e un monito per ricercare sempre la pace. Una lettura profondamente riduttiva della nostra storia. Nessuno è a favore della guerra e così incosciente da cantarne la bellezza, come facevano i giovani europei desiderosi di partire volontari più di cent’anni fa per scannarsi tra loro. Ma siccome i conflitti deflagrano pur se cerchiamo di evitarli, e le guerre nel futuro purtroppo seguiteranno ad esistere, sarebbe bene ricordare quelle del passato nei loro risvolti terrificanti ma anche in quelli gloriosi, che hanno contribuito a formarci come italiani.
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