Lampedusa, la strage dei bambini: «Sono tutti figli nostri». Il più piccolo aveva un anno

Lampedusa, la strage dei bambini: «Sono tutti figli nostri». Il più piccolo aveva un anno
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Venerdì 4 Ottobre 2013, 07:51 - Ultimo aggiornamento: 07:58
dal nostro inviato

Laura Bogliolo

LAMPEDUSA - Il mare li ha inghiottiti per poi restituirli senza pi respiro, in pochi attimi. Piccoli, alcuni ancora con gli occhi aperti per ricordare un’ultima immagine di vita, la pi tragica di tutte: la mamma che scompare tra le onde, il grido d’aiuto soffocato dall’acqua salata, le manine che cercano il cielo scuro.

Affogati, scomparsi nell’acqua, chissà ancora quanti stanno trovando una macabra ospitalità in fondo al mare a largo di Lampedusa.

IL RECUPERO

È stato difficile recuperarli perché non si trovavano, perché erano fagottini alla deriva e perché, una volta avvistati, i loro corpi erano immersi nella nafta. Quasi impossibile afferrarli senza che il liquido nero potesse farli scivolare di nuovo in acqua. Prima i due bambini, i maschi, poi le femmine. Un anno di vita, due, cinque e sei l'età dei bimbi morti nell'ennesima tragedia sulle coste più a sud d'Italia in quel lembo di terra troppo lontano da Roma per farti sentire italiano, troppo vicino all'Africa per non diventare l'approdo della disperazione per migliaia di migranti.

Non si conoscono ancora i nomi dei quattro bimbi morti ieri a largo dell'isola siciliana, forse non si sapranno mai, anche se le mamme di Lampedusa non hanno alcun dubbio e li hanno già ribattezzati «sono tutti figli nostri». Tutti figli di Lampedusa e di un'Italia che piange i quattro bambini provenienti dall'Eritrea che non ce l'hanno fatta a varcare la porta della speranza. Il più piccolo, un anno. Aveva gli occhi ancora aperti ed era senza vestiti quando un pescatore di Lampedusa lo ha sollevato e poi lo ha coccolato regalandogli l'ultimo sogno di dolcezza. Poi c'erano le bimbe, con i ricci stravolti dal mare della morte, con le bocche ancora aperte. Dopo ore è stato strappato dall'oblio delle onde anche il bambino più grande: sei anni.

LE URLA

I loro corpicini sono stati sistemati sul molo Favarolo della piccola isola, avvolti in teli di plastica colorati: loro erano i più piccoli, loro sono stati sistemati insieme come a farsi compagnia per quell'ultimo viaggio verso una bara di legno che ancora non si è fatto in tempo a dipingere di bianco. Le urla in acqua sono strazianti, agli isolani i singhiozzi dei bimbi sembrano quasi le urla dei gabbiani, in mare iniziano a galleggiare stracci, relitti di quel barcone maledetto e abitini dei quattro piccolini protagonisti di una tragedia senza fine. Li hanno ripescati davanti all'isola dei Conigli, quel golfo che è un Paradiso per i turisti e che si è trasformato in un Inferno. I primi a raccogliere le grida della tragedia sono stati degli isolani in gita su una barca da diporto di dieci metri. Poco prima delle sette avevano sentito dei rumori striduli, poi al largo della spiaggia Tabaccara l’orribile scoperta. Centinaia di corpi che galleggiano sull’acqua, Marcello Nizza si tuffa e recupera un corpo: lo salva con il massaggio cardiaco. Le braccia tese in mare scivolano sulla benzina che cosparge i corpi dei naufraghi, ragazzini di sedici anni completamente nudi che ormai hanno perso i sensi.

Piangono i sopravvissuti, piangono le mamme di Lampedusa che ieri pomeriggio in via Roma hanno organizzato un piccolo corteo per dire che «Lampedusa è per l'accoglienza, ma non per accogliere i cadaveri dei bambini, aiutateci». Santina Cacciatore, 28 anni, è corsa al poliambulatorio per sapere se poteva dare una mano. «Sono mamma anche io - dice facendo una smorfia - è una tragedia, quei fagottini senza più vita sono un dolore troppo forte per tutti». Sul quel barcone maledetto c'erano anche ragazzini, 10, 11 anni, sporchi di nafta e salvati sul peschereccio Angela C. di due fratelli Colapinto che raccontano gli «sguardi fissi nel vuoto, i tremori, le braccia strette ai più piccolini, forse i fratellini». A Lampedusa il pianto di bimbi affamati continua a farsi sentire dal centro di prima accoglienza: ci sono neonati di venti giorni, racconta un gruppo di siriani, vengono cullati dalle mamme e con gli occhi scrutano un cielo che li ha voluti sopravvissuti.

I quattro «figli di Lampedusa» ora non ci sono più. Sono in viaggio per la terraferma che tanto sognavano, racchiusi in piccole bare. Resteranno senza un nome. I genitori sono morti insieme a loro. Perché nessuno li ha reclamati, nessuno ha chiesto di quei fagottini che non possono più neanche sognare un ultimo abbraccio di mamma.

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