Migranti, 77 bambini affogati nel Mediterraneo negli ultimi due mesi

Vestiti e oggetti abbandonati su una spiaggia turca dopo l'ennesimo naufragio di un viaggio della speranza finito male
di Giulia Aubry
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Sabato 21 Novembre 2015, 10:48 - Ultimo aggiornamento: 11 Novembre, 20:43


Settantasette bambini affogati nelle acque del Mediterraneo dall’inizio di settembre fino al 31 ottobre. E altri ancora sarebbero scomparsi nei primi giorni di novembre.

Bambini senza un volto, senza un nome, senza una storia da raccontare e condividere sui social.
Sono passati poco più di due mesi dalla terribile immagine del piccolo Alan Kurdi. Quel corpicino riverso, abbandonato su una spiaggia della Turchia - con indosso ancora la magliettina rossa e i pantaloncini blu – in poche ore ha fatto il giro del mondo, accedendo i riflettori sul dramma delle centinaia di migliaia di migranti che attraversano il Mar Mediterraneo dalla Turchia o dalle coste nordafricane per raggiungere la Grecia e l’Italia.

Prime pagine dei quotidiani, aperture dei notiziari televisivi, post su Facebook, milioni di tweet, interventi di politici… Alan Kurdi è stato trasformato nel simbolo delle guerre civili, del dramma della Siria e del MedioOriente minacciato da Isis, dei fallimenti della politica internazionale, del cinismo degli altri paesi del Golfo, dell'inutilità delle politiche migratorie dell’Unione europea e di tutto ciò che si poteva in qualche modo legare a quella drammatica immagine.
Ma quel simbolo, per quanto doloroso e potente, non ha potuto fermare l’ineluttabilità di una ondata migratoria che vede protagonista il ‘mare nostrum’ e ha proporzioni mai viste prima.

Nel 2015, secondo i dati relativi ai primi 10 mesi dell’anno, oltre 792.000 migranti avrebbero raggiunto le coste della Spagna, dell’Italia e della Grecia, secondo i dati pubblicati dall’Agenzia Onu per i Rifugiati (UNHCR). Di questi 3.440 sono morti o risultano dispersi e quasi il 30% sarebbero bambini. L’ondata maggiore è quella che si è riversata in Grecia (quasi 650.000 persone) e da qui sulla rotta balcanica (e in piccola parte in Italia) per raggiungere i paesi del nord Europa.

Il 52% di questi profughi è siriano e sfugge alla guerra civile che da anni imperversa nel paese e vede contrapposti l’esercito nazionale di Assad, le fazioni cosiddette ‘ribelli’ e i militanti islamici del sedicente Stato Islamico. Alan e la sua famiglia venivano da lì, erano di Kobane, la città curdo-siriana protagonista di un lunghissimo e doloroso assedio in cui migliaia di civili hanno perso la vita. Il 19% è afgano in fuga dai talebani. Il 6% proviene dall’Iraq dove gli uomini di Isis sono penetrati in forze dopo la Siria pretendendo di ricongiungere – attraverso morte e distruzione – i territori separati dell’antico Califfato. Il restante 14% ha provenienza varia: Mali, Gambia, Somalia, Sudan, Pakistan, Nigeria ed Eritrea. Stati dove la guerra, gli scontri etnici sono all’ordine del giorno e dove la speranza di vita per un bambino è bassissima.
I 77 bambini che dall’inizio di settembre sono affogati nel Mediterraneo erano prevalentemente siriani. Provenivano dai campi sovraffollati del Libano, della Giordania, della Turchia. Le famiglie sognavano per loro una vita migliore, giochi diversi da quelli in cui si imitano bombardamenti o esplosioni di kamikaze, sonni senza più incubi.

Alan non è riuscito a ‘fermare la guerra’, come qualcuno – condividendo post su Facebook – si era augurato. Le prime pagine dei giornali che invitavano i politici a ‘fare qualcosa’, di fronte al corpicino del bimbo iracheno di 2 anni, sono poco più di un ricordo. A distanza di due mesi la sua immagine ha perso il suo significato, la sua forza evocativa, il potere di ricordare al mondo che “nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra”. E altri 77 bambini – senza foto né nome – hanno seguito la sua terribile sorte.