Graldi, cronista fino alla fine: l’addio di famiglia e amici sulle note di Dalla

Giornalisti, politici e lettori al funerale dell’ex direttore di Mattino e Messaggero

Graldi, cronista fino alla fine: l’addio di famiglia e amici sulle note di Dalla
di Mario Ajello
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Martedì 2 Gennaio 2024, 23:32 - Ultimo aggiornamento: 3 Gennaio, 13:02

Bisognerebbe chiedersi perché una grande folla è andata a salutare Paolo Graldi ieri mattina nella chiesa di San Salvatore in Lauro, dove si sono svolti i suoi funerali. È una domanda a cui rispondere è molto semplice. L’autenticità, nell’era della sofisticazione, ha una forza inesauribile. Che va anche oltre l’esistenza in vita del personaggio che l’ha incarnata non come un’anticaglia ma come qualcosa di dinamico e che serve per costruire il domani. Da questo punto di vista, Graldi era un personaggio del poi. E quello che verrà non può non essere fatto di ciò di cui Paolo era impastato: passione ferrea per il giornalismo come fatto di cuore e di testa più che di carriera (e non parliamo di potere: esigenza a lui del tutto estranea), smodata curiosità per ogni cosa, capacità di collegare tutto con tutto. Altro che intelligenza artificiale! Graldi l’aveva inventata naturalmente, ma non avrebbe mai preteso di diventare titolare unico del marchio e per realizzare la scoperta non ha avuto bisogno di chissà quale diavoleria a parte i suoi occhiali e il taccuino e la penna che si è portato nel feretro che ieri ha lasciato la piazza di San Salvatore in Lauro mentre risuonavano le note di «Felicità» cantata dal suo amico di gioventù, Lucio Dalla: «Ma io ho voglia di parlare / Di stare ad ascoltare / Di continuare a far l’asino / Di comportarmi male / Per poi non farlo più». 

Il direttore Massimo Martinelli ha raccontato la persona e il giornalista (che nel caso di Paolo coincidevano): «Simona, la moglie adorata, mi ha raccontato che nelle ultime notti della sua vita parlava nel sogno, progettava interviste, cercava spunti e storie.

Paolo era proprio così e lo è stato fino alla fine. Io ero un ragazzo, e lavoravo con lui alla Notte della Repubblica di Sergio Zavoli. Fu organizzata una cena di fine ciclo delle puntate, in un posto ai Castelli Romani. Paolo, ma mi puoi dire qual è il ristorante?, gli chiedo. Lui non rispondeva. E dopo tante insistenze mi disse: sei un cronista? Devi scoprirlo da solo!». Antonio Padellaro, sodale dai tempi della comune esperienza al Corriere della sera e poi direttore dell’Unità e fondatore del Fatto Quotidiano, racconta dal pulpito: «Quando in questi anni mi vedeva in tivvù, mi mandava messaggini così: stai più dritto con la schiena; tagliati i capelli». 

Il suo, quello di un grande giornalista-narratore-amico-maestro di un’infinità di colleghi ma anche di persone che hanno fatto e fanno altro, di un direttore rimpianto di testate importanti come Il Mattino e Il Messaggero, è stato un funerale che gli sarebbe piaciuto assai. Molto graldiano nello stile anti-retorico e asciutto, nella profonda religiosità civile perfetta per un non credente che non poteva non essere incuriosito anche dal credo cristiano e che, fingendo di volersi accontentare del Purgatorio, in realtà aspirava a buon diritto al Paradiso in cui starà per entrare. Visto che Paolo come ha detto dall’altare - citando la poetessa Alda Merini - il suo amico Giulio Maira, luminare della medicina, negli ultimi tempi grazie a sua moglie, la meravigliosa Simona, «ha già sentito il profumo di Dio e non resta che lasciarlo andare nei suoi giardini». 

 

LA COMUNITÀ

C’erano alla esequie tutti gli amici e le amiche che sono stati il lievito della sua vita ben vissuta e che hanno continuato a dargli fino alla fine lo stesso affetto che lui ha sempre dato a loro. C’erano insieme a Simona nella prima fila Leonardo Caltagirone e la moglie Aura, coppia a cui Paolo era legatissimo in maniera fraterna e indissolubile. C’erano le nipotine, Sophie ed Eva, e quando Simonetta Matone dall’altare parla dell’attaccamento di Graldi alle due bimbe scoppia a piangere. C’erano la sorella gemella Giovanna arrivata dall’Emilia, l’adoratissimo nipote Marco e gli altri: Agnese e Giovanbattista. C’erano Gianni Letta, Pier Ferdinando Casini, Francesco Rutelli e Barbara Palombelli (la quale conobbe Paolo ai tempi dell’Europeo e al Corriere si sono divertiti immensamente perché allora nel giornalismo usava così), Enrico Vanzina e via così: vip ma anche no.

I vecchi colleghi del Mattino, quelli del Messaggero (compresi Roberto e Salvatore, autisti affezionatissimi), quelli del Corriere della sera (anche di generazioni più giovani: Paolo Conti, Maurizio Caprara, Fiorenza Sarzanini, Giovanni Bianconi), i direttori del Messaggero (Mario Orfeo, Roberto Napoletano, Paolo Gambescia), Clemente Mimun e Luigi Contu, Bruno Manfellotto, una firma di Repubblica come Silvana Mazzocchi che con Paolo ha avuto un sodalizio professionale e umano straordinario, Piero Vigorelli, Giuseppe Sangiorgi, Antonella Martinelli di Porta a Porta (lo adorava, ricambiatissima) e ci scusino i tantissimi altri non citati. Don Pietro, che ha celebrato il rito, parla di lui e Simona: «Avevano una differenza di età. Ed è la riprova che l’amore non ha tempo. Si erano trovati, si erano amati, e si sostenevano con vigore». Racconta il sacerdote del suo dialogo con Paolo che aveva deciso di rendere anche cristiano (e così è stato alla fine) il matrimonio civile che lo univa a Simona: «Ma tu che cosa vieni a chiedermi? Lui mi ha risposto, guardando Simona negli occhi: ho scoperto che esiste una speranza che va oltre il limite della nostra ragione». Era uno così, Paoletto.

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