Emilia Brangefalt, campionessa suicida a 21 anni dopo un problema al cuore. Scriveva: «Il mio corpo si è spento»

Era un talento del trail running, i medici l'avevano obbligata a fermarsi

Emilia, campionessa suicida a 21 anni dopo un problema al cuore. Scriveva: «Il mio corpo si è spento»
di Benedetto Saccà
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Giovedì 23 Novembre 2023, 21:27

 Il suo cuore batteva forte, troppo forte, batteva da impazzire, fino a farla impazzire, e così lei, con dolore, lo ha fermato. Viene dalla Svezia la tragedia più terribile che possa scivolare via dal mondo dello sport; e racconta che Emilia Brangefalt, a ventuno anni, si è uccisa perché non riusciva più a sopportare l’idea di non poter gareggiare, dopo che le era stato riscontrato un problema al cuore – sorta di tachicardia continua intrecciata allo stress. Forse solo al silenzio si potrebbe consegnare il commento di una storia simile; gravoso è il solo confezionare parole che non pronuncino suoni inutili. Emilia era una campionessa del trail running – una specialità della corsa che si svolge in ambiente naturale, rari i tratti di asfalto – aveva conquistato la medaglia di bronzo nello short trail ai Mondiali del 2022 in Thailandia ed era arrivata quinta ai Mondiali di Innsbruck nel giugno scorso. Di un suo futuro pieno di successi e risultati erano certi tecnici ed esperti. Era nata il 10 maggio del 2002 a Vasteras, Emilia, poco distante da Stoccolma, in Svezia. Fin da bimba aveva rintracciato nei propri gesti un indubbio talento per la corsa, e nella propria mente una convinta passione per la natura. Correre tra i boschi, dunque, sarebbe stata la sua vita, aveva stabilito. Era brava, non c’è nulla da dire, e vinceva. Invece. Invece, a luglio, gli esami clinici avevano restituito esiti allarmanti, obbligando Emilia a rallentare e, poi, sfortunatamente a fermarsi. Se correre significava vivere, smettere di correre avrebbe voluto dire smettere di vivere.

I SOCIAL

Sui social Emilia Brangefalt adorava condividere momenti e allenamenti, vittorie e sorrisi insieme agli amici, paesaggi pazzeschi e istanti di quotidianità.

Ma durante l’estate, come detto, i toni dei post avevano virato verso il buio. «Da fine luglio il mio corpo si è spento. Solo fare una passeggiata è faticoso ora. Sono stata in ospedale e dal medico almeno venti volte, ogni analisi del sangue, ogni elettrocardiogramma dava risultati ottimi, eppure il mio corpo continua a risultare stressato, anche se gli ho dato solo amore negli ultimi mesi», scriveva. I muscoli, però, erano ormai troppo affaticati, quasi stremati, per poter sostenere certe preparazioni atletiche, specie considerando che Emilia correva su distanze da ultramaratoneta.

«Magari per una ragazza di 21 anni è stato troppo correre la Transvulcanica di 48 km e la WMTRC di 45 a meno di un mese di distanza. Sono devastata perché correre e allenarmi significano così tanto per me. Ma ora come ora anche solo vivere è difficile. Ho trascorso più ore a letto che in piedi nell’ultimo mese. Forse un giorno tornerò. O forse no. Spero di riprendermi». Eccolo, l’allarme. «Forse un giorno tornerò. O forse no». Emilia Brangefalt aveva lanciato un grido di aiuto, ma pochi hanno ascoltato. E, dieci giorni fa, si è sfilata dalla vita, scegliendo la morte. Il suo gesto dovrebbe allora interrogare soprattutto gli educatori e allenatori degli atleti più giovani, oltre che gli organizzatori di alcune discipline. Perché sottoporre la mente e il corpo a pressioni psicologiche e fisiche chiaramente insostenibili di sicuro non è sport. Se mai è il suo contrario.

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