Il sogno di Oliver Stone: «Volevo fare lo scrittore»

Il sogno di Oliver Stone: «Volevo fare lo scrittore»
di Marco Molendini
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Venerdì 7 Aprile 2017, 00:01 - Ultimo aggiornamento: 12 Aprile, 20:10
Rolling Oliver Stone, il regista che rotola da uno scandalo all’altro, bad boy che ha la passione di raccontare controcorrente, fare più o meno quello che una volta si chiamava cinema di denuncia. L’ultimo che ha girato è il caso Snowden, adesso sta preparando Conversations with Putin, intervista confessione con un altro bad boy, anche se di un ramo diverso, quello politico. «Per due anni ho fatto avanti e indietro con Mosca. Uscirà a inizio 2018», racconta, ospite del Lucca Film festival che gli rende tributo con una retrospettiva dei suoi film e un premio alla carriera. Insomma, mister Stone, dopo Arafat, Chavez e Castro, ha scelto un altro personaggio non proprio in sintonia con l’establishment del suo paese. 

«Penso che sia l’occasione per capire cosa Putin pensi veramente: con me ha parlato in inglese e, per la prima volta, si potrà ascoltare quello che dice senza il filtro della traduzione. E’ un uomo razionale, non un emotivo come Bush e Trump». 

A proposito di presidenti, ne ha già raccontati tre, JFK, Nixon e Bush. Non è che, con Trump, ci scappa anche il quarto?
«Trump è ancora da capire. Riesce sempre a prendere la direzione sbagliata. E’ triste: in politica estera si è dimostrato ignorante quanto sarebbe stata Hillary Clinton. Spero che faccia un corso rapido di educazione politica».

Preoccupato? 
«L’America non viene gestita dai suoi presidenti, ma da un establishment solido: informazione, finanza, tecnologia, l’industria delle armi. Obama, doveva essere un uomo di pace, invece è diventato un guerriero». 

Lei demolisce i potenti, però la seducono platealmente. 
«E’ vero, ma più che al personaggio mi interesso ai meccanismi della lotta per il potere. Sia che si tratti di JFK, di Wall Street, di National born killers, di Alexander». 

Un potente (lo è diventato post mortem come mito) che ha trattato con tenerezza è Jim Morrison: gli ha dedicato un bel film. 
«Povero Jim, era sopratutto un povero ragazzo dall’anima pura. Un sensitivo con un’attrazione irresistibile verso l’amore e la morte». 

Il suo rapporto con Hollywood come funziona? 
«Da ragazzo, quando mia madre mi portava al cinema, anch’io sognavo Hollywood. Poi, quando ci sono arrivato, il sogno è cambiato e ho cercato di fare il mio meglio, guardando al mio tempo, all’attualità. Girando film come JFK, che ha prodotto l’uscita di nuove informazioni sull’assassinio. O come Wall street: molti brokers mi raccontavano di essere entrati in finanza a causa mia. E come ho fatto con Untold History of the United States, documentario ora trasmesso su Netflix. Ma Hollywood non è la mia casa: con le major, se vogliono un mio film, ok. Altrimenti faccio io».

Ci sono, in America, argomenti tabù che neanche lei potrebbe toccare? 
«Non si potrebbe mai fare un film dallo spirito ateo alla Pasolini. E ci sono regole molto ferree sulla moralità sessuale. Basta guardare cosa è successo a Polansky, l’America è puritana, non perdona». 

Quale è stato il suo peggior film? 
«8 milioni di modi per morire. Terribile. A quel tempo stavo facendo Salvador e il film lo diresse Hal Ashby, che stava male. Basta dire che la storia doveva essere ambientata a New York e l’hanno girata a Malibù. Un disastro. Avrei dovuto ritirare la mia firma». 

Il Vietnam, tanti mestieri, arresti per droga: la sua vita non è stata rose e fiori. 
«Sono un privilegiato, mio padre era un agente di borsa, sono anche andato a Yale, nello stesso corso c’era George W. Bush. Io ho resistito solo un anno, detestavo quel luogo e sono andato a insegnare nel distretto cinese di Saigon. Due anni dopo ci sono tornato per combattere. Sono cose che mi hanno maturato molto». 

Quando ha deciso di fare cinema? 
«Adoravo scrivere, sarei voluto diventare come Conrad, Hemingway, Norman Mailer. Dopo il Vietnam avevo problemi con le droghe. Mio padre mi aiutava finanziariamente. Poi sono andato a scuola di cinema». 

Al Film school institute ha avuto come insegnante Martin Scorsese. 
«Era un giovane professore e un grande insegnante. Ricordo che giravo dei corti davvero brutti. E Martin me lo diceva con assoluta franchezza. Ci siamo scambiati tante osservazioni sulla storia del cinema. Era uno spettatore onnivoro, guardava film in tv fino alle tre di notte. Allora non c’era altro modo di vederli se non, appunto, quando li trasmetteva una rete».

Scorsese le ha contagiato l’entusiasmo per questo mestiere?
«Mia madre mi ha dato l’entusiasmo. Per lei ho anche scritto un soggetto ispirato da Giulietta degli spiriti di Fellini, ma non l’ho mai girato». 

La Film school ha funzionato alla grande: lei ha sbancato subito con i soggetti di Fuga di mezzanotte e Scarface. «Scarface era un’idea di Al Pacino, innamorato del film di Howard Hawks con Paul Muni. Sidney Lumet, il regista che doveva girarlo, rifiutò perché c’era troppa violenza. Quindi è arrivato Brian De Palma. Non è stato facile finirlo, costava troppo e all’inizio lo stroncarono. Invece fu un successo».

Prima citava Pasolini: il cinema italiano l’ha influenzata in qualche modo? 
«Ho amato tutto il cinema europeo proprio grazie a mia madre che era francese. Il conformista di Bertolucci è il film più potente del tempo. Ma anche 900. Meno l’Ultimo tango, troppo Marlon Brando. Sono stato colpito dal materialismo di Antonioni e dall’ottimismo di Fellini». 

Ottimista Fellini? Forse si, pensando a come Stone vede il nostro tempo nei suoi film. 


 
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