Agnese Pini, direttrice (a 34 anni) della Nazione: «Le giornaliste? Hanno pochi modelli a cui ispirarsi»

Agnese Pini alla sua scrivania
di Annamaria Barbato Ricci
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Lunedì 5 Agosto 2019, 11:46 - Ultimo aggiornamento: 18 Ottobre, 21:09

Agnese Pini, 34enne, carrarese, da pochi giorni è al timone de ‘La Nazione’, quotidiano fiorentino di origini preunitarie, fondato da Bettino Ricasoli. Attualmente, nella carta stampata, fra le varie testate quotidiane italiane, c’è un’unica altra donna in questo ruolo: è Norma Rangeri, de Il Manifesto (a diffusione nazionale). 
Direttora o direttrice?
«Preferisco il classico ‘direttrice’, che esiste nel vocabolario italiano. So che c’è una corrente di pensiero che predilige sostituire la vocale finale maschile con quella femminile, ma mi sembra una forzatura. Altro sarebbe se una versione al femminile dell’incarico o del titolo non ci fosse».
Quando le è venuta l’idea di diventare giornalista?
«Avevo 16 anni quando accaddero gli attentati dell’11 settembre. Restai molto colpita dai tanti articoli delle grandi firme che sul Corriere della Sera scrissero articoli appassionati: ricordo i pezzi di Fallaci, Terzani, Maraini. Mi fecero desiderare di seguire quella strada e di informarmi per davvero; di diventare io stessa testimone. Andavo ancora al Liceo e fui così colpita da quegli avvenimenti che mi presentai alla redazione di Carrara de La Nazione con un piccolo articolo sui fatti. Mi guardarono con un po’ d’ironica tenerezza: “Va a scuola”, mi invitarono. Avevano ragione. Cultura e passione sono le chiavi di volta di questo bellissimo, pesantissimo lavoro. Non ci si improvvisa senza avere strumenti culturali ed esempi».
C’è spazio, oggi, per una nuova generazione di giornalisti?
«Molti cercano di dissuadere i giovani dal dedicarsi a questo lavoro, si parla di crisi della stampa, di mancanza di prospettive, di avanzata del citizen journalism. Sono in totale disaccordo. Si tratta di trovare nuovi linguaggi e nuove modalità per fare giornalismo, in grado di intercettare l’interesse del pubblico. E’ altresì un paradosso pensare a un giornalismo tutto basato sui giovani: nelle redazioni occorrono la memoria storica e l’esperienza dei più anziani, e le politiche di rottamazione coatta rischiano di diventare deleterie. C’è bisogno di colleghi esperti, delle loro conoscenze, così come sono altrettanto importanti l’entusiasmo e il coraggio, insieme alla voglia d’imparare, dei giovani. Il coraggio rende però più sventati: senza il presidio di chi il giornalismo lo fa da anni, si può incappare facilmente nella scemenza. Piuttosto, nei cartacei sono davvero troppo pochi i giovani. Mentre, nei giornali on line, sono gli anziani a mancare».
Ha iniziato a collaborare alla Nazione di Carrara appena ventunenne, ancora prima di laurearsi l’anno dopo in Lettere all’Università di Pisa col massimo dei voti e la lode. All’epoca già riteneva che la sua strada sarebbe stata nella carta stampata?
«Non ne ho mai dubitato. Decisi di iscrivermi a Lettere, una facoltà che, a mio avviso, consente di acquisire una robusta preparazione culturale. Ogni facoltà, però, se riesce a conferire una struttura culturale e un’apertura mentale, va bene, perfino ingegneria meccanica o biologia marina. Perché la cultura è alla base della nostra professione. Insieme a ciò, occorrono curiosità e passione in eguale misura, nonché predisposizione alla fatica, al sacrificio, umiltà, voglia di imparare. Non si può fare il giornalista senza studiare. Ritengo utili anche i master delle scuole di giornalismo. Ho frequentato per sei mesi l’IFG “Walter Tobagi” a Milano, poi ‘Il Giorno’ mi offrì di completare il praticantato in redazione e non continuai. In quei sei mesi, però, ho potuto imparare tanto».
Esiste un modo al femminile per dirigere un quotidiano?
«Senza dubbio: le donne sono diverse dagli uomini. Purtroppo, però, hanno pochi modelli a cui ispirarsi, il panorama è assai ristretto. Certo non sono punti di riferimento gli stereotipi che circolano, veicolati da un immaginario maschile: tacchi, tailleur, modi bruschi e aggressivi, in una sorta di donne mascolinizzate che non appartengono al nostro modo di essere. Ognuna di noi deve sapersi forgiare, riempiendo di significato il ruolo secondo la propria personalità».
Qual è stato il primo articolo da giovanissima cronista?
(ride) «Parlava del proliferare delle cacche dei cani sui marciapiedi di Carrara. Mi colpì una poesia anonima che, con ironia, lo stigmatizzava dalla vetrina di un negozio. Cercai di scoprirne l’autore. Una città va raccontata anche attraverso ciò che potrebbe apparire poco importante».
Ovvero la cronaca, vero baricentro del giornalismo. Un argomento che le sta molto a cuore, tanto da dedicarle il suo primo editoriale da direttrice.
«Precisiamo, la cronaca è ciò in cui il lettore vive immerso, ma è ben altro dalla scrittura di un post di Facebook. Già nel titolo ho voluto sintetizzare: “I giornali sono persone”. Noi giornalisti innanzitutto siamo dei cronisti. Il giornalismo non sta morendo. Anzi, sta morendo il giornalismo deteriore, che neanche può definirsi tale: quello dei privilegi, delle cricchette che da sempre, per fortuna, è espressione di un’esigua minoranza. Un giornale, dando voce alla realtà, lo puoi anche amare. E noi, al servizio dei cittadini, continuiamo a crederci: lo testimoniamo quotidianamente, tenaci, affamati e pazienti in un angolo delle aule dei consigli comunali; nei corridoi dei palazzi di giustizia e delle questure; davanti ai marciapiedi dissestati o ai negozi svaligiati; insieme ai cittadini truffati, arrabbiati, maltrattati; oppure raccontando la felicità di persone a cui è capitato qualcosa di così bello che non poteva essere taciuto».




 

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