Strage Suviana, sequestrati due piani della centrale. I soccorritori: «La nostra battaglia al buio»

La scatola nera consegnata ai pm: aiuterà a capire le cause del disastro. L’ipotesi della turbina fuori giri

Bargi, Centrale idroelettrica
di Claudia Guasco
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Domenica 14 Aprile 2024, 00:11 - Ultimo aggiornamento: 15:33

dalla nostra inviata

BARGI (BOLOGNA) Ora che i corpi delle vittime non ci sono più, restano i muri di una centrale bruciata e allagata, una turbina esplosa e un’inchiesta della Procura di Bologna per disastro colposo e omicidio colposo. Ai piani meno nove e meno otto, dove sono stati trovati i sette morti, sono stati messi i sigilli, domani cominceranno i sopralluoghi degli investigatori e la scatola nera con la memoria dell’impianto di Bargi è stata consegnata ai pubblici ministeri.

Dalla lettura incrociata tra i dati che verranno estrapolati da questa sim e i documenti acquisiti sui lavori ormai in fase conclusiva si partirà per stabilire le cause del disastro. «Nelle centrali c’è la massima attenzione, il personale è di grande livello.

Non crediamo a un errore umano, forse c’è stata un’avaria», è opinione comune a Castiglione de’ Pepoli, borgo di 6.000 abitanti nell’Appennino bolognese dove vivono decine di dipendenti Enel Green Power. Due sono sopravvissuti: Emanuele Santi, che ieri è tornato al lavoro, e Alessio Fortuzzi, entrambi scappati dai piani alti della centrale. Mentre Leonardo Raffreddato, in ospedale a Cesena con ustioni al petto e alle braccia, sta lentamente migliorando.

LA VALVOLA

La ricostruzione dell’incidente, al momento un’ipotesi, è che la turbina sia andata fuori giri, abbia accelerato andando in pezzi e per effetto delle scintille avrebbero preso fuoco gli oli dei cuscinetti sotto l’alternatore, almeno due contenenti tremila litri di lubrificante ciascuno. Il motivo per cui la turbina abbia aumentato a sproposito la velocità è tutto da capire ed è avvenuto proprio nella fase di collaudo del secondo gruppo di generazione. Il cartello di descrizione dei lavori affisso al cancello della centrale riporta una «breve descrizione dell’opera: attività di revisione della valvola rotativa e adeguamento del sistema oleodinamico, sostituzione quadri elettrici». La valvola rotativa è un dispositivo meccanico che regola la portata dell’acqua e quindi la velocità della turbina. La prima preoccupazione degli esperti accorsi sul luogo del disastro era proprio questa: «La messa in sicurezza della condotta in pressione a monte, oltre che dell’area al livello del lago», spiega Giuseppe Petrone, responsabile nazionale dei sommozzatori dei Vigili del fuoco. Ingegnere, 49 anni, settemila ore di immersione all’attivo, ha guidato la squadra di diciotto esperti che ha recuperato i corpi. «Buio, acqua sporca per la contaminazione degli oli dispersi, detriti. Una cosa simile l’ho vista solo dopo il naufragio della Concordia», racconta. «Siamo arrivati alla centrale martedì attorno alle undici di sera. In quel momento c’erano gli uomini dell’Usar», personale specializzato in disastri, «che lavoravano al meno sette e in parte dell’ottavo, i due piani sottostanti erano già completamente allagati». La scena che si presenta ai suoi occhi è spaventosa. «La visibilità era nulla, inferiore ai venti centimetri, i locali invasi dalle macerie. Blocchi di cemento e lamiere, pezzi di turbina e di alternatori. E poi la gran quantità di masserizie. I vani dell’impianto sono aree enormi, misurano circa mille metri quadrati, niente era più al suo posto: suppellettili, mobili, armadietti e scrivanie scaraventati ovunque. Quadri elettrici divelti e cavi liberi: le passerelle che li trasportano hanno ceduto, ce n’erano a centinaia sparsi dappertutto e rappresentavano un ulteriore ostacolo, visto che hanno un diametro di tre centimetri e mezzo».

 

SANGUE FREDDO

I sub si muovono a tentoni, con cautela, «per avanzare in un ambiente così ostile si impiegano anche dieci minuti per dieci metri». I sommozzatori scendono in coppia, comunicano tra loro e con l’unità in superficie. «Con le planimetrie in mano li guidavamo, confrontando la loro posizione con le immagini che ci restituiva la telecamera», ricorda Petrone. «Una volta individuata la vittima bisogna affrontare il percorso inverso, con una difficoltà in più: per essere portato fuori, il corpo viene vincolato al soccorritore». I sub indossano una muta scafandro ermetica, hanno una bombola di emergenza sulle spalle ma la centrale di comando è rappresentata dall’elmetto: da qui ricevono l’aria per respirare, è dotato di un sistema di illuminazione e un interfono. Tutto quello che vedono sott’acqua viene trasmesso su un monitor in superficie. La componente tecnica è sempre mantenuta sotto controllo, poi c’è la variabile delle emozioni. «L’impatto emotivo in queste missioni è sempre molto forte, non deve avere il sopravvento, ci si concentra. Siamo addestrati anche per questo. Ma quando vediamo che per qualcuno è troppo dura, interveniamo subito», afferma Petrone. «Se si prova paura? Certo, la paura c’è sempre ed è quella che consente di non fare errori».

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