Il paradosso del rugby: cresce (economicamente) durante la crisi

Il paradosso del rugby: cresce (economicamente) durante la crisi
di Paolo Ricci Bitti
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Lunedì 25 Maggio 2020, 09:30 - Ultimo aggiornamento: 13:29
Una pioggia di soldi sul rugby proprio quando è alle prese con la sua fase più nera: è per sua stessa definizione uno “sport di contatto” , ovvero ciò che la pandemìa del coronavirus mette al bando con più che giustificata severità.

E’ in onda insomma uno dei capitoli più paradossali di questo sport: da una parte il movimento ovale - in tutto il mondo, eh - è placcato nei suoi fondanti fondamentali quali mischie e placcaggi, architravi del gioco educativo messo a punto in Inghilterra a metà del 1800, dall’altra raccoglie l’attenzione e i denari di un gigante del business planetario come l’Equity Fund Cvc che ha già tratto profitti ad esempio dalla Formula Uno e che è pronto a offrire due miliardi di euro per una quota minoritaria della Lega Calcio.

Gli zero sono meno per il rugby, ma ugualmente si tratta di somme formidabili per un movimento che si è dato al professionismo solo 25 anni fa. E in un periodo in cui tutti ma proprio tutti gli sport piangono miseria per gli effetti del Covid-19.

Per farla breve, alla Federazione italiana rugby, che ha un bilancio annuale attorno ai 48 milioni di euro e che pesa sul Coni solo per il 9% (un record), arriveranno nel giro di 4 anni 20 milioni di euro perché partecipa, ora da socia paritaria, alla coppa europea Guinness Pro 14, il cui 28 per cento è stato ceduto per 130 milioni complessivi al Fondo mentre altrettanti, forse qualcosa di più, sono sul banco per l’Italia nella trattativa che sempre Cvc ha avviato per l’acquisto del 15% del Sei Nazioni.

Ecco, vedete come va il mondo ovale in questi tempi oscuri in cui dai vertici alla base ci si sta scervellando per riportare, in sicurezza e con spese sostenibili, i giocatori di ogni età e categoria sui campi. A partire dalle regole: c’è chi propone persino di – orrore – abolire le mischie dimenticando che un rugby così c’è già da un secolo e mezzo, quello a 13. Per non dire del pubblico, ché non si è mai – mai – registrato il caso di una partita di rugby a qualsiasi livello a porte chiuse senza fedeli attorno.

E’ chiaro che ora si raccolgono i frutti di trattative iniziate prima dell’uragano Covid e che comunque la Fir è restata almeno per ora senza il favoloso incasso di Italia-Inghilterra dello scorso marzo per il Sei Nazioni sulla cui ripresa non vi sono certezze. Idem per i test match di novembre, altro nettare per le casse della Fir che è stata la prima a bloccare ogni attività e a non assegnare scudetto e promozioni, in questo caso risparmiando e facendo risparmiare i club. Stop a tutto, come ha poi fatto anche la Francia, ma lì rimettendoci un Perù.

Un passaggio indietro. Dieci anni fa, pure in ritardo, la Federazione italiana prese atto che il massimo campionato, la serie A al di là dei nomi infausti che le sono stati via via assegnati, non era più all’altezza di lanciare giocatori in azzurro, quelli impegnati nel Sei Nazioni, gallina dalle uova d’oro per il rugby italiano che senza di esso di fatto non sarebbe presente su alcun radar nazionale o internazionale. E che mai più lo sarebbe stata, perché la congiuntura fra crisi economica, esigenze del professionismo (non a caso definito “straccione” in Italia dove di rugby possono campare un centinaio dei circa 90mila praticanti) e “portata” del movimento avrebbe comunque ridotto il livello tecnico.

In una fase turbolenta si formarono così due franchigie a Treviso e Viadana (Aironi) e quindi a Parma (Zebre), che da allora partecipano esclusivamente alle coppe europee fra le quali appunto la Celtic league che già riuniva franchigie gallesi, scozzesi e irlandesi e che da tre anni include pure due province sudafricane. La Fir sostiene in toto le Zebre con circa 6 milioni che vanno anche al Treviso che però gode anche dello storico e sostanzioso sostegno della Benetton.

I risultati? Si sperava di più e comunque oggetto di controversie. Già non averne impiantata una Roma o a Milano (come chiesto dagli organizzatori) si è rivelato penalizzante. E per poi anni si navigò a vista tra ripicche e antipatie che solo di recente, con l’ex ct O’Shea, sono state almeno in parte aggiustate anche se tanto resta da fare.

Intanto la Benetton in Celtic ha giocato 188 partite vincendone 58 (e 6 pareggi), il picco la scorsa stagione con l’ingresso nei play off. Treviso, va ricordato, rappresenta l’Italia anche nella Champions.

Gli Aironi vinsero 5 partite su 44 prima di fallire, poi le Zebre con 30 vittorie su 144 match (2 i pareggi). Poco o tanto o il massimo ottenibile dalla pianta del rugby italiano? Nel dubbio è invece fortissima la certezza che senza le franchigie sarebbe andata molto peggio, disperdendo le forze del movimento che – anche con l’arrivo di Cvc – resta il più esile rispetto alla concorrenza che placca e si tuffa in meta a volte anche da un secolo prima.

Sarebbe davvero andata peggio la nazionale, basata appunto sulle due franchigie, che non vince una partita nel Sei Nazioni dal 2015? Il dibattito è aperto, ma intanto c’è da fare quadrato attorno a quel che c’è, compresi i milioni in arrivo da Cvc ai quali guardano come assetati nel deserto anche i club che fanno attività di base con i bambini, con il futuro: volontari instancabili che però le bollette dei campi le devono pagare.

La Fir ha stanziato per adesso quasi 2 milioni di euro, ma in fatto di soldi, incalzato dalla crisi Covid, è il rugby mondiale che si sta guardando allo specchio scoprendo parecchi strappi sulle vesti. Il giovane professionismo ovale ha già tutti i malanni di un vecchio, insomma il rugby, che primeggia in pochi paesi e quasi tutti con pochi abitanti e quindi con piccoli mercati (vedi la Nuova Zelanda o il Galles), deve stringere la cinghia: i giocatori veramente pro’ sono solo l’uno per cento del movimento ma evidentemente troppi tanto che Gareth Davies, presidente della federazione gallese, ha chiesto ai club, tutti i club al di sotto del vertice, di smettere di pagare i giocatori di ogni livello, alta o bassa che fosse la prebenda. In Italia devono essere fischiate le orecchie a chi pretende di vivere allenando un club di serie B (di fatto la quarta serie) o a chi fa passa giocatori da un club all’altro di serie C per 300 euro al mese. Se il Covid cancellasse l’illusione di poter vivere o comunque campicchiare di rugby, questione riservata a pochissimi e eccellenti atleti, non sarebbe male.

Per la Federazione, il cui presidente Alfredo Gavazzi è in scadenza dopo due mandati (ma si voterà solo l’anno prossimo dopo le Olimpiadi), il compito è durissimo nonostante le iniezioni di Cvc. Soldi peraltro da investire con oculatezza e non da spendere a pioggia perché dalla prossima stagione il Fondo reclamerà la sua quota di utili dalla coppa ex celtica e, domani, dal Sei Nazioni. Se non aumentano i proventi di queste competizioni, i soldi ottenuti oggi mancheranno nei prossimi anni.


 
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