Quando Peter Handke in Italia parlava di Flaiano e d'amore

Quando Peter Handke in Italia parlava di Flaiano e d'amore
di Renato Minore
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Venerdì 11 Ottobre 2019, 01:00
Non è facile avere rapporti con chi confessa «attacchi di autismo». In uno straordinario libretto, Intervista sulla scrittura, Peter Handke confessava a Herbert Gamper il suo «male» autistico: «Senti le persone, ma è come trovarsi dietro a una vetrata, le senti, non ti puoi più muovere, i discorsi ti sembrano terribilmente ridicoli e ripugnanti, non riesci a partecipare ai discorsi, non riesci nemmeno a cacciare un urlo». Sulla non partecipazione di Handke ai casi del mondo (in particolare a ogni forma di pubblicità attraverso i media), circolavano più leggende. All’intervistatore imbarazzato che, per rompere il ghiaccio, gli proponeva un caffè, lui aveva risposto seccamente: «E perché dovremmo prenderlo?». 
Handke venne a Pescara nel 1992 per ritirare il Flaiano, che poi è stato l’unico accettato nel nostro Paese tra i tanti proposti. Era arrivato con la giovanissima compagna Sofie, creatura davvero incantevole che sembrava uscita da un ritratto del Perugino o del Parmigianino. Aveva evitato accuratamente i giornalisti. Aveva guardato con curiosità Alberto Sordi, anche lui premiato. Non si potevano immaginare due personaggi antropologicamente più diversi, entrambi in prima fila per ricevere l’alloro. Si era informato su Ennio Flaiano: quando aveva sentito, tra gli altri titoli, Tempo d’uccidere, il suo sguardo s’era illuminato. Sì, aveva letto il romanzo in tedesco, molti anni prima, aveva apprezzato l’ambientazione africana, il senso di frana e di colpa.

Accanto a lui Sofie. Restai incantato a osservare la tenera lentezza dei loro gesti, la loro intesa fatta di niente, una lieve pressione del gomito sul gomito, un monosillabo, una risata appena accennata in sintonia, una parolina appena sussurrata. Handke viveva il suo innamoramento, dimostrava una disponibilità al mondo, all’ascolto della voce degli altri. Dalla coppia emanava una singolare letizia spirituale che escludeva ogni altro convitato. Parlava in uno stentato italiano gutturale, ma riusciva comunque ad esprimere le sue idee. Eludeva soltanto le questioni strettamente letterarie. Non si era voluto pronunciare sui nostri scrittori, tranne che su Dante, il «più grande di tutti» e su Antonio Tabucchi, casualmente incontrato e riconosciuto in una via di Parigi.

L’esperienza - diceva Peter - è quella che più ci manca: oggi vogliamo conoscere tutto, senza fare esperienza di nulla. Sullo sfondo c’era la sua infaticabile attività di camminatore, la Francia, la Galizia, la Germania tante volte attraversate «in una pienezza dell’essere che ti permette di toccare la sottile e essenziale unità dei luoghi e delle cose».

Peter confessava di essere stato un’altra volta a Pescara, raggiunta a piedi, partendo da Ravenna, di essersi fermato in uno strano albergo sulla riviera, un po’ liberty. Scorreva una piacevole convivialità: dove erano finiti gli attacchi di autismo, l’isolamento, i difficilissimi rapporti umani di quello che si poteva considerare uno dei massimi scrittori europei, già degno del Nobel? Il discorso, poi, cadde sulle vicende dolorose della ex Jugoslavia e Peter ripetè con calore le sue idee contro l’indipendenza della Slovenia che lo avevano portato alla polemica con Kundera. Handke è nato in un villaggio della Carinzia dove si parla sloveno e ha descritto la sua condizione in uno struggente romanzo, La ripetizione. Per lui la Slovenia restava l’intatta patria dèi suoi vagabondaggi, il regno di «una semplicità evidente e autentica». Un sogno che perdurava nonostante il fragore delle armi e le smanie separatiste.

«Sogno da anni ancora l’immersione nella leggenda bizantina», aveva detto Peter al momento del commiato e «voglio che anche Sofie faccia questo sogno». Un sogno a occhi aperti per chi come lui avrebbe scritto in Un anno parlato dalla notte che dai sogni, anche quelli ad occhi aperti, proviene la materia prima, i fili del futuro tessuto non sono solo sequenze d’immagini, ma immagini del linguaggio che usiamo. E con il parlato si fissano frammenti rubati al sogno o a una sua intempestiva traduzione nel linguaggio quotidiano, diurno.
 
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