Ma è anche un teatro realistico perché fotografa e sottopone agli occhi di tutti, in un dato momento, lo stato della politica e le capacità e incapacità dei suoi interpreti di tenere il palcoscenico e di non rovinare troppo questa grande cerimonia laica. La quale, appunto, ricalca i riti della Chiesa. E ne condivide i tempi (la lunghezza della scelta, anche se stavolta c’è chi dice che si farà presto) e anche i soggetti (i grandi elettori come i cardinali del Conclave). Le modalità del consesso pontificio e di quello repubblicano hanno qualche parentela pure nelle fumate: quelle nere e poi, finalmente, quella bianca dell’«Habemus Presidente». Ma se la Chiesa ha sempre un linguaggio universale, che va oltre se stessa, la politica di solito è chiusa nella sua auto-referenzialità. Fa eccezione, anche in questa fase di scarso appeal del gioco dei partiti, il momento della scelta della carica monocratica per eccellenza di questo Paese. Una competizione, c’è chi la chiama una lotteria, nella quale il meglio e il peggio della vita pubblica si mettono in mostra ed è gustoso cercare di decifrare le strategie in corso, comprese quelle dei franchi tiratori che Indro Montanelli chiamava gli «onorevoli lupara».
Guarda caso, le votazioni si svolgono a Montecitorio, che fu sede della curia pontificia, massimo organismo amministrativo della Roma del tempo dei papi. E mentre impazzano i pronostici, gli spin e i controspin e i toto candidati, va ricordato un particolare. Nelle gallerie di papabili durante l’ultimo Conclave, nelle gallerie di faccette con nomi e cognomi dati per «sicuri» o «molto probabili» su tutti i media come successori di Ratzinger, mancava una sola iconcina: quella di Bergoglio. Che poi si sarebbe rivelato, a sorpresa, il grande vincitore.